mercoledì 31 marzo 2010

Da qui. Un post di Giulia

Scendo nella metropolitana, sì, proprio quella di Park Kul’tury, quella della seconda esplosione; fare finta di niente? Impossibile. E a ricordarmelo, tantissime persone che portano continuamente fiori. Il muro ne è ricoperto, sono belli, colorati, in grado di ispirare soltanto allegria. Ma senti nel silenzio – innaturale – qualche preghiera che sfugge dalle labbra e tante lacrime. Lacrime impaurite negli occhi di persone ancora sconvolte.
Sono tanti i sentimenti e i pensieri che si accalcano e si alternano in queste ore; su tutto domina un senso di impotenza incredibile: essere inermi, in balia di ciò che è incontrollabile e imprevedibile, indifesi e preda di destini incrociati o strane coincidenze. Come per esempio il mio ritardo, di 5 minuti, quel lunedì mattina quando dovevo dirigermi a Sokol’niki e prendere quella metro alle 8.30 circa… E quanti qui hanno pensato la stessa cosa? Se avessi, se fossi… E’ solo dannoso ma non se ne può fare a meno e anche quando cerchiamo di controllare e incasellare razionalmente la realtà (probabilità, numeri, percentuali), qualcosa sfugge, si ribella alle gabbie della ragione e si annida nel profondo, spunta quando meno te lo aspetti e non ti lascia più.


Più nudi e con tanta rabbia; rabbia nell’assistere a ciò che l’Uomo è in grado di compiere ai danni del prossimo. Ecco il Male puro. Credenti o meno, penso che ognuno di noi possa definire soltanto in questo modo l’atto di annientare un’altra vita.

Ancora: sofferenza nel vedere sguardi impauriti e volti terrorizzati di armeni, caucasici e altre popolazioni che ora sono sotto il mirino dei mezzi di informazione e rischiano la vendetta crudele di cittadini stanchi di piangere vittime innocenti. Per radio un ragazzo armeno racconta, con voce triste, quasi rassegnata, che vorrebbe andare a portare qualche fiore, a commemorare le persone decedute ma teme la reazione dei presenti, teme di essere riconosciuto e di dover pagare le conseguenza della follia Umana (che non ha bandiera, nazionalità o colore di pelle). Per la prima (e penso unica) volta mi trovo d’accordo con il sindaco di Mosca Lužkov: i terroristi non hanno nazionalità, sono semplicemente ‘neljudi' (non uomini).

Poi, angoscia: nell'aspettare sulla banchina il prossimo treno, nello scegliere il vagone (meglio alla fine? all'inizio?), la linea da percorrere (l'anello è più pericoloso o più sicuro?), l'orario – quando è possibile – ma qui è spesso ora di punta. Ti siedi e vedi persone assorte, addirittura in lacrime, che pregano a ogni fermata che non succeda niente. È vita?
È possibile che i moscoviti debbano subire tutto questo? Una mia cara amica mi ha detto lunedi sera che per lei era incomprensibile aver passato tutta la giornata a mandare messaggi e a chiamare amici e conoscenti: «Tutto a posto?», «Si, sto bene. Tu, tutto a posto?», «Si anche qui nessuno di noi è stato coinvolto».

«E' mai possibile studiare, lavorare, passeggiare nella propria città e dover assistere ed essere protagonisti di queste assurde situazioni?» si chiedeva. Lei ama davvero Mosca e la capisco, anche se non sono nata e cresciuta qui, come invece la maggior parte dei miei amici. Ho la fortuna e l'onore di conoscere ed essere legata a persone che mi hanno insegnato cosa significhi amare la propria città, rispettarla e sentirsi parte di essa. Per molti di loro Mosca è un luogo dal quale non è possibile allontanarsi, almeno con il cuore; tutti viaggiano, visitano altri paesi, passano mesi tra Francia, America, Italia o Germania ma «quando sono all'estero la nostalgia per Mosca è grande»; non di casa, ma della città, in primo luogo.
Io sono straniera, vengo da ben lontano. Eppure anche per me Mosca è un nido, luminoso, caro, vicino al cuore più di molta Italia. Non so quanto tempo ancora sarò nel suo abbraccio ma posso comprendere cosa significhino queste ferite per persone che hanno trascorso qui tutta la vita o che cercano di costruirvi il loro futuro.

Tutti gli amici a casa ora mi chiedono se la situazione sia tornata alla normalità. Io mi chiedo se questa parola abbia ancora un senso: 'normalità' di vivere con un'ombra – a volte più avvertibile, a volte meno – ma che avvolge i pensieri e aleggia costantemente, ogni volta che si iniziano a scendere quegli scalini o si saluta qualche amico, fidanzato, parente che va in università, al lavoro, a fare la spesa?… «Stai attento», «Mi raccomando» - sai già, mentre pronunci queste parole, che sono vuote. Eppure è un ultimo necessario appiglio per sentirsi in grado di controllare qualcosa, di poter agire in qualche modo sul futuro, così tremendamente incerto.
No, Mosca non è tornata alla normalità, non soltanto perchè ora a ogni angolo uomini in divisa scrutano i passanti ma perchè qualcosa dentro si rompe, si lacera. Il tempo può a volte anestetizzare i sentimenti, attutire le emozioni, ma le ferite rimangono e tornano a bruciare più forte che mai quando nuove tragedie oscurano il cielo.

È la Settimana Santa, sia per i cattolici sia per gli Ortodossi. E pensare alla Passione, all'Amore che fa dono di sé è ancora più difficile. Guardo quella Croce e trovo a malapena le forze di chiedere 'Perchè?', ma so già che la risposta, quasi sicuramente, non arriverà.

Julia

Giulia De Florio

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