Il grande comparativista e studioso delle religioni, Wilfred Cantwell Smith, sosteneva che non bisognasse pensare alle religioni al plurale ma al singolare: la storia delle religioni è in realtà la storia della religione e non ha senso concepirla come una serie di tradizioni diverse in competizione tra loro come si è fatto negli ultimi secoli.
Così lo studioso cita lo stupefacente caso in cui Buddha è passato alla storia come un santo cristiano grazie a quell'intricato fenomeno religioso-letterario che è la leggenda di Barlaam e Giosafat, ovvero grazie a una filiazione complicata di una serie di traduzioni che dall'Oriente si è diffusa in tutta Europa.
La storia di questi due santi, celebrati nel Martirologio Romano il 27 novembre e in quello ortodosso il 19 dello stesso mese, racconta che Abenner, re indiano, apprende che suo figlio Giosafat vuol farsi cristiano. Gli costruisce allora uno splendido palazzo fornito di ogni fonte di piacere, perché dimentichi il suo proposito. Ma Giosafat scopre la vacuità della vita mondana nell'aspetto di un cieco e di un morto e incontra più tardi l'asceta Barlaam, che gli conferma la sua vocazione al cristianesimo. Giosafat si ritira nella solitudine e alla sua morte compie mirabili miracoli.
Non è difficile riconoscere la vicenda del principe Siddartha anche in questa sintesi approssimativa. Per la sua narrazione avvincente e compatta che fa da cornice a una serie di apologhi e per le sue inquiete domande sul senso della vita, per l'ideale di ascetismo rigoroso che risponde a queste domande, il racconto esercitò un'influenza straordinaria su tutta la cultura occidentale dall'XI secolo in poi. Fu tradotto praticamente in tutte le lingue occidentali, conosciuto in più di 60 versioni e riprodotto nelle arti figurative di tutta la cristianità, occidentale e orientale.
Da Shakespeare, Lope de Vega, Calderon e il russo Žukovskij, come canta Ol'ga Sedakova in una sua elegia dedidacata ai santi Barlaam e Iosaphat, esso è "cuore di antico racconto/ che batte nelle diverse lingue".
La cosa interessante è che per argomentare la sua trattazione Smith inizia proprio da Tolstoj, la cui storia personale proprio come viene narrata nella Confessione sembra molto simile a quella del giovane Sakia-Muni, cioè il principe Siddharta, passato dalla vita dissipata giovanile alla rinuncia del mondo. Naturalmente questa somiglianza non è casuale.
Nel primo abbozzo della Confessione (scritta subito dopo Anna Karenina alla fine degli anni Settanta) Tolstoj esordiva così: "Sono cresciuto, sono invecchiato e mi sono voltato indietro a guardare la mia vita".
Proprio per "guardare alla propria vita" e per illustrare la sua personale situazione di crisi, Lev Nikolaevič racconta una "favola" presa dalla Leggenda dei santi Barlaam e Giosafat. Si tratta dell'apologo della cisterna o del viandante che cade nel pozzo.
Esso è raffigurata, tra l'altro, nel timpano del portale di mezzogiorno del Battistero di Parma. Così Claudio Mutti descrive questa bellissima opera di Benedetto Antelami e riassume il nostro apologo: "Sul timpano della porta meridionale del Battistero di Parma troviamo un bassorilievo che contiene una rappresentazione allegorica della vita umana. La lunetta è notissima, poiché si trova riprodotta in molti libri d'arte. Al centro, tra i rami di un albero variamente identificabile, c'è un ragazzo coi piedi appoggiati sul tronco: con la mano sinistra estrae del miele da un alveare e con la destra se lo porta alla bocca. Intanto, però, due bestie non facilmente definibili corrodono le radici della pianta, mentre un drago eruttante fuoco attende minaccioso, giù in basso, che il ragazzo cada. Ai lati dell'albero, a sinistra e a destra, abbiamo quattro tondi. Nel tondo inferiore sulla sinistra è raffigurato il carro del Sole, trainato da due cavalli: Apollo, col capo raggiante, tiene con la sinistra una sferza e una sfera, e tende la mano destra verso la notte, quasi a volerne fugare le ultime tenebre. Sempre a sinistra, nel tondo superiore, c'è una figura maschile che rappresenta il Giorno. Sul lato destro, nel tondo inferiore, abbiamo il carro della Luna, trainato da due tori: Diana, col capo sormontato dal disco lunare, li stimola con un pungolo che tiene nella mano destra. Intorno a questo medaglione, troviamo disposti due fanciulli nudi che suonano delle trombe e due fanciulli vestiti che con delle specie di bastoni cercano di frenare la veloce corsa del cocchio. Nel tondo superiore di destra, si vede la Notte, con una fiaccola nella destra; dietro di lei, si scorge la testa di un toro. Tutt'intorno al semicerchio della lunetta, si attorce una decorazione vegetale, che richiama le foglie e i frutti dell'albero centrale"
Nella Confessione Tolstoj riporta questo apologo e ne commenta la simbologia in modo inusualmente esplicito: "Già da lungo tempo è stata raccontata la favola orientale del viandante inseguito nella steppa da una belva inferocita. Per mettersi in salvo dalla belva il viandante balza dentro un pozzo senza acqua, ma sul fondo del pozzo vede un drago che spalanca le fauci per divorarlo. E l'infelice, non osando strisciar fuori per non essere sbranato dalla belva inferocita, non osando neppure saltare sul fondo del pozzo per non essere divorato dal drago, si afferra ai rami di un cespuglio selvatico cresciuto nelle fenditure del pozzo e si regge ad esso. Le sue mani allentano la presa ed egli sente che presto dovrà arrendersi alla fine che lo attende da ambedue le parti; ma egli continua a reggersi e mentre sta aggrappato si guarda attorno e vede due topi, uno nero e l'altro bianco che girando uno di qua e uno di là dal fusto del cespuglio a cui sta appeso, si sono messi a roderlo. Ed ecco che il cespuglio è lì lì per schiantarsi e precipitare ed egli cadrà nelle fauci del drago. Il viandante vede tutto ciò e sa che inevitabilmente perirà; ma mentre sta così appeso cerca intorno a sé e trova sulle foglie del cespuglio delle gocce di miele, le raggiunge con la lingua e le lecca. Così anch'io mi reggo ai rami della vita sapendo che il drago della morte, pronto a sbranarmi, mi aspetta inevitabilmente e non posso capire come mai sono sottoposto a questa tortura. Ed io provo a succhiare quel miele in cui prima trovavo consolazione; ma questo miele ormai non mi rallegra più e il topo bianco e il topo nero - giorno e notte - rodono il ramo a cui mi reggo. Vedo chiaramente il drago, e il miele non è più dolce per me. Vedo una cosa sola: il drago inevitabile e i topi - e non posso distogliere lo sguardo da essi".
Nello spirito del exemplum medievale dalla propria esperienza personale Tolstoj allarga lo sguardo sull'umanità universale, per questo può essere così chiaro ed esplicito, fin didascalico. Non ha bisogno dell'estremo pudore del simbolo, della mediazione, del celar dell'immagine. Confessandosi non narra di sé soltanto, come faceva con i suoi personaggi, con Anna, con Levin. Parla dell'umanità intera e gli accenti sono diversi. Tant'è vero che chiude il racconto osservando: "E questa non è una favola, ma l'autentica verità, indiscutibile e comprensibile a tutti". Questa, insomma, non è letteratura. (Continua, forse, chissà... interessa?)
E' il senso del bel film di Kiarostami "Il sapore della ciliegia", dove sull'orlo dell'abisso c'è una bellissima ciliegia da gustare prima della fine...
RispondiEliminaMa conservare il piacere di assaporare la ciliegia essendo consapevoli del drago che aspetta sotto e la tigre che sbarra il passo sopra richiede il lavoro di tutta una vita e il candore del bimbo ancora in noi. Ed anche per Tolstoj non era certo facile.