sabato 21 aprile 2012

Aleša e le Nozze di Cana. Parte Seconda


Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov
Parte III Aleša, capitolo IV Cana di Galilea


"...Gesù disse loro: riempite d'acqua le giare. Ed essi le riempirono fino all'orlo. E poi disse loro: attingete e portate al maestro di tavolo. E portarono. Or come ebbe il maestro di tavolo assaggiata l'acqua mutata in vino, che non sapeva donde venisse (ma lo sapevano i servitori che avevano attinto l'acqua) chiamò lo sposo e disse: tutti offrono da principio il vino migliore, e quando son già brilli danno l'inferiore; mentre tu hai serbato il migliore fino ad ora." 

"Ma cos'è' cos'è? Perché la stanza si sta allargando... Ah, sì... è vero, sono le nozze, un matrimonio... già, certo. Ecco anche gli ospiti, ecco ci sono anche gli sposini, e la folla allegra e... dov'è mai il saggio maestro di tavola? Ma chi è quello? Chi è? Di nuovo la stanza si va dilatando ... Chi si sta alzando da quella grande tavola? Come... Anche lui è qui? Ma non era nella bara? Però è anche qui... si è alzato, mi ha visto, viene qui... Oh Signore!

Già, eccolo, verso di lui, di lui stava venendo quel vecchietto tutto secco, con la sua faccia tutta rugosa, pieno di gioia e sorridente così quieto. La bara non c'era più ormai e lui aveva lo stesso vestito con cui il giorno prima era stato con gli ospiti che erano si erano incontrati da lui. Il viso è scoperto, gli occhi brillano. Com'è potuto succedere che anche lui, a quanto pare, sia stato invitato alle nozze di Cana di Galilea..."

"Anch'io, caro, anch'io sono stato chiamato, chiamato e invitato", risuona sopra di lui una voce quieta. "Perché ti sei sepolto qui che non ti si vede... andiamo che vieni anche tu da noi."

Era la sua voce, la voce dello starec Zosima... E come poteva non essere lui se lo stava chiamando? Lo starec fece alzare Aleša con la mano, lui si rimise in piedi.

"Rallegramoci", continua lo scarno vecchietto, "beviamo il vino nuovo, il vino della gioia nuova, grande; vedi quanti ospiti? Guarda lo sposo e la sposa e poi il saggio maestro di tavola, sta provando il vino nuovo. Perché ti meravigli di me? Io ho dato una cipollina, ed eccomi qui. E molti qui hanno dato solo una cipollina, una sola unica piccola cipollina per ognuno... Cosa sono le nostre opere? Anche tu, quieto, anche tu ragazzo mio mite, anche tu oggi hai saputo dare a colei che ne aveva bisogno. Comincia, caro, comincia, mite, la tua opera!... E vedi il nostro sole, Lo vedi?

"Ho paura, non ho il coraggio di guardare..." sussurrò Aleša.

"Non aver paura di Lui. E' terribile nella Sua grandezza al nostro cospetto, terrificante per la Sua altezza, ma infinitamente misericordioso; si è fatto come noi per amore e gioisce con noi, trasforma l'acqua in vino perché non venga meno la gioia degli ospiti, nuovi ospiti sta aspettando, nuovi chiama incessantemente e ormai per i secoli dei secoli. Ecco che portano il vino nuovo, vedi, portano le brocche..."

Qualcosa ardeva nel cuore di Aleša, qualcosa lo riempì all'improvviso fino a fargli male, lacrime d'estasi eruppero dalla sua anima... Tese le braccia, gridò e si svegliò...
Di nuovo la bara, la finestra spalancata e la quieta, cadenzata lettura del Vangelo. Ma Aleša non sentiva cosa stavano leggendo. Stranamente si era addormentato in ginocchio e ora era in piedi, e all'improvviso come se lo avessero strappato via da dov'era, con tre passi veloci e saldi si avvicinò alla bara. Urtò perfino padre Paisij con la spalla e non se ne accorse. Questi per un istante fece per alzare lo sguardo dal libro, ma lo distolse subito avendo capito che al giovane era successo qualcosa di strano. Per mezzo minuto Aleša guardò la bara, guardò il cadavere coperto, immobile disteso nella bara, con l'icona sul petto e il cappuccio con la croce a ottopunte sul capo. Solo poco prima aveva sentito la sua voce e quella voce risuonava ancora nelle sue orecchie. Si mise ancora in ascolto, aspettava ancora dei suoni... ma all'improvviso, giratosi di scatto, uscì dalla cella.

Non si fermò nemmeno sul terrazzino, ma scese velocemente giù. La sua anima piena di estasi bramava libertà, spazio, vastità. Su di lui si stendeva la volta celeste, vasta e impossibile da guardare tutta, piena di quiete stelle splendenti. Dallo zenit fino all'orizzonte si biforcava la Via Lattea non ancora ben chiara. Una notte fresca e quieta fino all'immobilità aveva rivestito la terra. Le torri bianche e le cupole dorate della cattedrale brillavano su un cielo di zaffiro. Nelle aiuole presso la casa si erano addormentati  i lussureggianti fiori d'autunno aspettando il mattino. Il silenzio della terra era come rifluito in quello del cielo, il mistero della terra aveva toccato quello delle stelle. Aleša era lì, guardava e all'improvviso come fulminato si buttò giù, sulla terra.

Non sapeva perché la stesse abbracciando, non si rendeva conto perché desiderasse così irrefrenabilmente baciarla, baciarla tutta, eppure la stava baciando piangendo, singhiozzando e, irrorandola con le sue lacrime, giurava in estasi di amarla, amarla nei secoli dei secoli. "Irrora la terra con le lacrime della tua gioia e ama queste tue lacrime..." risuonò nella sua anima. Per cosa piangeva? Oh, nella sua estasi piangeva perfino per quelle stelle che gli splendevano dall'abisso e "non si vergognava di quell'esaltazione". Come se i fili di tutti quegli innumerevoli mondi divini  si fossero uniti insieme nella sua anima ed essa trepidasse, "al contatto con i mondi altri". Gli venne voglia di chiedere perdono a tutti e per tutti, oh! non per sé, ma per tutti, per tutto e per ogni cosa, mentre "per me saranno gli altri a chiederlo", risuonò di nuovo nella sua anima. Ma ad ogni istante sentiva chiaramente e quasi tangibilmente  che qualcosa di saldo e irremovibile, come quella volta celeste, era penetrato nella sua anima. Una specie di idea gli aveva preso la mente e ormai era per tutta la vita e per i secoli dei secoli.  Era caduto a terra debole ragazzino e si era alzato saldo guerriero per la vita e ne ebbe coscienza all'improvviso in quello stesso minuto di estasi. E in seguito mai, mai nella sua vita, Aleša poté dimenticare quel minuto. "Qualcuno ha visitato la mia anima in quel momento", diceva poi con una salda fede nelle proprie parole...

Tre giorni dopo uscì dal monastero, anche in accordo con la parola del suo starec defunto che gli aveva ordinato di "dimorare nel mondo".


L'epifania di Aleša, dunque. Un'esperienza forte che lo investe: "qualcuno ha visitato la mia anima" e che lo coinvolge tutto: cuore e mente. Non è irrazionale, è umana, cuore e mente. Aleša è lucido, benché preso dalla cosa strana che gli sta accadendo (e con molta delicatezza lo nota anche padre Paisij). Prima il giovane è preso da un sentimento (čuvstvo) e poi è un'idea che si insedia nella sua mente per la vita. Il tempo dell'eterno viaggia a un'altra velocità e Dostoevskij ce lo dice con il suo "all'improvviso" continuamente ripetuto (gli ultimi studi sul pensiero creativo sembrano dargli ragione) ma non annienta, dunque, mi sembra di capire, non ci è completamente estraneo, fa parte della nostra umanità. Aleša, infatti, ne esce confermato (fermo, saldo, sicuro, duro traducono il russo tverdyj). La ripetizione e l'uso insistito di alcune parole guidano la comprensione e Dostoevskij ne fa un uso particolare. Ad esempio, gli aggettivi che ricorrono, in modo che quasi disturba, a proposito di Aleša sono tverdyj che ho tradotto sempre con "saldo", sforzando un po' l'italiano e tichij reso con "quieto". Entrambi passano ad Aleša dallo starec che è da essi caratterizzato più volte. Allo stesso modo anche radost', gioia, e serdce, cuore, rimbalzano dal Maestro al discepolo. In particolare su tichij si potrebbe scrivere a lungo, della sua aura religiosa, ma anche del significato normale e quotidiano di "piano", a bassa voce. Ho di nuovo sforzato rendendo sempre "quieto" anche quando si parlava del tono della voce, ma volevo che risaltasse la sua funzione di Leitmotiv. Non a caso l'aggettivo descrive anche il sorriso del Cristo come lo immagina nel sogno Aleša (cfr. il libro di Giobbe amatissimo da Dostoevskij e importante sottotesto dei Karamazov,  33, 14-15: "Dio parla in un modo  o in un altro, ma non si fa attenzione. Parla nel sogno, visione notturna, quando cade il sopore sugli uomini e si addormentano sul loro giaciglio"); ma si ritrova anche per tratteggiare il Messia della Leggenda del Grande Inquisitore che guarda ticho, che bacia ticho. Aggettivo di quiete ma soprattutto di silenzio, il silenzio mite del Bene, contro la loquacità vana del diavolo che va a trovare Ivan Karamazov, arrivando dai recessi più bui della sua stessa anima. 
Cuore e mente, sentimento e idea fanno la totalità dell'uomo, ma Dostoevskij e il suo Aleša fanno anche esperienza di ben altra integrità e unità: quella dell'universo intero, i fili dei mondi altri che si dipartono da centri misteriosi e legano – religant – il tutto. Cadendo in terra si conquistano le stelle. La Madre Terra qui non è un elemento inerte e non è neanche un vago ritorno di miti passati e antichi. Il tempo degli anni si azzera, la terra s'impasta con l'acqua e viene plasmato l'uomo nuovo. Ed è bello pensare che per l'impasto sono usate lacrime di gioia. Densa mescola di gioia e consapevolezza illuminata dalla luce delle stelle, anche loro tichie, come la notte stessa del resto. Notte luminosa e silente. Altra mescola preziosa di luce e buio.
Ne parla anche Zosima: "Molte cose sulla terra ci sono nascoste, ma in compenso ci è stato donato un misterioso, recondito senso del nostro vivido legame con un altro mondo, un mondo superiore, celeste, e le radici dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti non sono qui, ma in altri mondi. Ecco perché i filosofi asseriscono che è impossibile concepire l'essenza delle cose sulla terra. Dio prese i semi da altri mondi e li seminò su questa terra, il suo giardino crebbe e tutto quello che poteva germogliare germogliò, ma ciò che è cresciuto vive ed è vivo esclusivamente in virtù di quel senso di contatto che avverte con gli altri mondi misteriosi".
E ricordiamoci che le parole di Zosima ci arrivano perché trascritte da Aleša (allora anche lui è un autore, come Ivan lo è della Leggenda e il corpus degli insegnamenti dello starec è in diretto collegamento con la storia dell'Inquisitore, fili fili fili...). E, a ben vedere, Dostoevskij ci racconta anche del sogno e dell'epifania con le parole di Aleša ancora virgolettate, conservando l'impressione di immediatezza e la veridicità del racconto di prima mano, della testimonianza.
Di mistero si è ammantata la terra e il cielo, ma la salda e quieta fede di Aleša ci vive dentro in modo attivo (l'azione, l'effettività, l'attività, l'OPERA: altro nucleo importante per il ragazzo). E così il resto del romanzo ci mostrerà il ruolo attivo di Aleša che era già stato prefigurato nella premessa dell'opera. E' lui che crede fermamente in Dmitrij e lo sostiene, entra dal di dentro al turbinio intellettuale e morale di Ivan, è vicino a Liza, guida i bambini ed è il loro maestro spirituale...


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