venerdì 25 novembre 2016

25 novembre: Dostoevskij e il corpo delle donne

K.D. Flavickij, La principessa Tarakanova (1864)

Chi subisce violenza è inchiodato per sempre alla violenza. Se è vero, però, che “l'offeso è condannato a girare senza fine intorno all'offensore e a riprodurre le condizioni dell'offesa e a farsi offendere nuovamente” (R. Girard), è vero anche l'opposto e il carnefice è condannato a ripetere la stessa violenza se non intraprende un cammino di redenzione. L'avviluppato rapporto tra vittima e carnefice: è la vittima che si sente in colpa, si lega al carnefice e ne diventa complice, ma anche chi esercita violenza sente un particolare vicinanza con la propria vittima. Il ragno ama la mosca che sta tormentando?
E molti personaggi di Dostoevskij, invischiati nel desiderio di possesso e di dominio, percorrono questa strada. La violenza chiama violenza, il malriposto bisogno di salvezza si risolve nel consumo di un altro essere umano, il più delicato, indifeso e puro. Il Demone di Lermontov, l'angelo caduto sperso negli abissi vuoti dell'essere, brama l'amore della bella e armoniosa Tamara, mentre i demoni di Dostoevskij si rimpiccioliscono in un umanità piccina e sporca, chiusa nelle pieghe del disonore o dell'oppressione sociale, a seconda dei casi.
Il vero sottosuolo è questo, alla fine. Il sottosuolo di oscure pulsione e contrastanti desideri. Tanto sottosuolo che non emerge nemmeno nelle parole, come per l'eroe del sottosuolo. Usare, violare un altro essere umano, possibilmente fresco e innocente, nella disperata speranza di approfittare della purezza altrui per salvare se stessi. A volte, la depravazione può sgorgare assurdamente da uno spiraglio di luce e di rigenerazione, "uno scopo, una vita nuova", come dice Vel'čaninov dell'Eterno marito, o "il profumo di mela appena colta" di cui parla il suo inconcepibile doppio Trusockij. E' la vana ricerca del sollievo in una vita nuova, della risurrezione, aggirando l'unica via possibile, quella della kenosis e del dono di sé.

Nei confini del romanzo, tuttavia, è necessario che tutto rimanga vago e poco definito.
Di cosa tace Dostoevskij? Su cosa è reticente? Cosa non può essere specchiato dalla letteratura?
E' certo molto difficile parlare del Bene e della sua possibile/impossibile incarnazione nella realtà, ma è il Male a essere schermato dalle spesse cortine del non detto e di una consapevole reticenza.
In Povera gente, nella Padrona, nella Festa di Natale e le nozze, in Delitto e castigo fino ai Demoni e oltre, ci sono poco chiare allusioni alla corruzione di bambine.
Del peccato più grande, dell'abisso orrendo del male non si può parlare; questo sì che rimane fuori della letteratura e oltre la parola. Di questo ha parlato una volta per tutte il Vangelo di Marco: "Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare" (Mc. 9, 42).
In Dostoevskij il male è una sorta di radice nera comune, la materia di cui sono fatti i suoi eroi, esso entra nelle molle che muovono l'intreccio della narrazione (la famosa inspiegabilità del comportamento dei suoi personaggi che tanto irritava Nabokov), ma rimane al di là della parola. Cominciamo a intravvederlo fin dal primo romanzo, Povera gente, nell'elusiva figura di Bykov, che appare solo una volta in carne e ossa nel libro, ma il cui nome ricorre continuamente in una sorta di climax fino alla sua martellante presenza nelle ultime pagine, come un'ombra nefasta e posata su numerosi destini, non solo su quello di Varja e della sua violenza subita, ma non raccontata.
E, tuttavia, ciò di cui non si parla fino in fondo, paradossalmente, è presente come uno sfondo oscuro, le cui tracce quotidiane e spesso zuccherose si intravvedono nelle trame della narrazione e della vita.
La reticenza scoppia, infine, nei Fratelli Karamazov. Fin dall'inizio Grušen'ka è rappresentata essenzialmente nel suo essere un corpo. Bellezza né della Madonna, né di Sodoma, essa è l'evidenza della fisicità come si impone nella cultura ellenica (non a caso è paragonata alla Venere di Milo), tutta umana nella sua sottolineata fugacità. Tuttavia, essa misteriosamente porta in sé la scintilla divina della propria redenzione. Lei non lo sa, ne tanto meno noi lo sappiamo, visto che solo alla fine del romanzo apprendiamo che il suo cognome è Svetlova (da svet, luce).
La questione della violenza sadomasochista sulle donne (legata a quella sui bambini e agli impulsi al limite della pedofilia di Fedor Karamazov) è anticipata, tra l'altro, dall'aneddoto scabroso delle giovani contadine punite con la fustigazione pubblica, fatta eseguire dai giovanotti loro potenziali mariti, aneddoto che sottende la problematica esplosiva della sessualità come violazione e possesso. Per questo il tema di Grušen'ka, quello della donna da possedere, è sempre associato a quello del denaro (che per lo stesso motivo intorbida anche la relazione tra Dmitrij e Katerina Ivanovna.) Non è un caso che il casto Aleša sia descritto come gli evangelici uccelli del cielo e i fiori di campo, assolutamente indifferente alle tentazioni pecuniarie.
Egli, però, “trova la salvezza in Grušen'ka piuttosto che in padre Paisij” (L. Pareyson). E' il corpo violato di Grušen'ka il tramite della sua (e di quella di Dmireij) salvezza.

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