sabato 1 dicembre 2018

"Di un bel castano chiaro" (Torino piccola)




Finalmente. 
Finalmente mi siedo e con calma leggo tutto di un fiato questo libro, di cui ho intravvisto l’origine, di cui tanto ho sentito parlare, ho letto e leggiucchiato pezzetti qua e là.
E leggerlo intero, non i brandelli su FB o i brani citati dagli amici, fa tutta un’altra impressione.
Dal pubblico, alla presentazione a Parma, tra gli affettuosi adepti dei “Diari di bordo”, sale la domanda, ma “Mariolina, come fai a ricordare tanto e cose così lontane?” E lei serafica chiama in causa gli psicologi per rimpicciolire e relativizzare anche quel suo sforzo di memoria GRANDE nella Torino piccola (un dubbio irriverente mi prende: per contrappasso c’entrerà anche l’amato super fusto Eastwood in questo titolo?). Forse le cose non sono sempre andate proprio così, abbozza incerta…
E allora dovrò rileggere le amate, ma da anni neglette, Natalia Ginzburg e Lalla Romano (ti pareva che Mariolina non avesse un parente che la conosceva o che un parente di Mariolina non fosse entrato in un suo libro?), con occhi nuovi, occhi mariolini, e cercare anche in loro l’arcano della memoria: come si fa a conservare brandelli di ricordi per ricomprendere il passato in una storia, mettergli su una carcassa e rivestirlo di senso? Perché questo è necessario, prima di tutto per salvare noi stessi dal flusso che ci disperde e a cui siamo maledettamente incatenati. Come dice Dostoevskij, conosciamo solo quel flusso, ma è una conoscenza effimera, falsata, che non ci basta. Andiamo così alla ricerca dei due infiniti che ci delimitano, gli inizi e le fini, ne abbiamo bisogno, ma ci sfuggono.
E allora leggo Mariolina insieme a libri e riflessioni di altre donne, con una storia diversissima dalla sua, una Storia depredata di famiglie, spesso ebree, dell’Europa Orientale: Marija Stepanova, Katia Petrowskaja, Svetlana Boym… Ma il fondo è lo stesso, in fondo. La fantastica (Dostoevskij, ancora lui) ricerca degli inizi e delle fini. Mariolina, per la verità, per sua conformazione fisiognomica, è tutta proiettata verso gli inizi (e anche la fine del libro è un meraviglioso, tenero, metonimico inizio).
Sono tutti libri-ricerca sul passato, sulle storie e sulla Storia, libri che mettono a fuoco quel passato, libri-spremuta di vissuto (Marija Stepanova), libri-frigorifero per conservare, ma al tempo stesso per inverare e rendere reale, quel prodotto a breve scadenza che è la memoria. Le donne della generazione nata dopo la Seconda Guerra Mondiale, dopo l’Olocausto, raccolgono minuzie e non fanno grandi ricostruzioni: i loro monumenti sono le “scatole delle foto di famiglia”, a volte a loro basta l’elenco di oggetti o la minuta descrizione di una lampada similmedievale nello studio del padre. Non è un caso che quando si emigrava dall’URSS era vietato portare via gli album di famiglia, perché le fotografie raffiguranti più di tre persone erano considerate potenzialmente sediziose. Capita che censori e polizia di frontiera siano più perspicaci dei sociologi.
Era Šklovskij che diceva che l’arte mostra le cose invisibili straniando la nostra percezione della realtà. L’abitudine (il flusso) divora le cose, i vestiti, i mobili, la propria moglie e la paura della guerra, diceva. Svetlana Boym lo riprende, lo adatta a sé e a noi e precisa: quell’isolamento, la cornice di cui parlava Simmel (e cosa si presta meglio a essere incorniciato dei ridondanti oggettini di cattivo gusto che piacevano a Mariolina bambina?), non rappresenta un’anestesia o una fuga, ma piuttosto un ritorno alla realtà in modo diverso, per sperimentarla nuova. Lo straniamento non è dal mondo, ma per il mondo.
È questo che leggo anche in Torino piccola. E mi pare anche di aver scoperto una delle leggi del libro, una delle forme dello sguardo di Mariolina. La metonimia.
Tutti le abbiamo detto, ma perché così piccolo, il libro, perché non hai scritto di più? Ma era logico! La metonimia è piccola, è abbreviazione, ma dedita al servizio del grande e dell’intero. È il senso di misura di chi si sa creatura. È la motivazione profonda del sobrio understatement torinese. Ci dice del piccolo per parlarci del grande. E' lo sguardo metonimico che ha fatto dire a Pascal che il mondo "est une sphère dont le centre est partout et la circonférence nulle part".
C’era una città affacciata sul luminoso lago Svetlojar, la Storia crudele l’ha fatta sprofondare nelle acque, ma Kitež non è sparita, continua a vivere sul fondo del lago e i puri di cuore la riconoscono solo dal tocco delle sue campane.

Mariolina Bertini, Torino piccola, edizioni Pendragon, Bologna 2018.

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