martedì 18 maggio 2010

Il colore del melograno (prima parte)


Il re del canto o il signore della musica. Questo significa Sayat Nova, lo pseudonimo del grande poeta armeno vissuto nel XVIII secolo che scrisse i suoi versi in armeno, georgiano e in farsi. Destinato a essere un tessitore di tappeti, volle diventare un ašug (poeta menestrello, trovatore) e finì per intrecciare parole a fili di note dei moltissimi strumenti di cui era un virtuoso esecutore (il čonguri, il tar...). Protetto del re georgiano Eraclio II alla cui corte compose la sua lirica amorosa (per la principessa, sorella del re, di cui era innamorato), in seguito si ritirò in monastero con il nome di David, arrivando, forse, a occupare la cattedra episcopale di Tiflis (la Tbilisi di oggi).

Su questo grande poeta Sergej Paradžanov, anzi Sarkis Paradjanian, girò il Colore del melograno nel 1968. Avrebbe dovuto intitolarsi proprio "Sayat Nova", ma la censura pose il veto su questo titolo così sovversivo. Un film che gli diede problemi, girato senza mezzi e subito percepito lontano "dal realismo russo", fin antisovietico. Nel 1973 questa pellicola e altre sue opere gli costarono la condanna a cinque anni in lager (ne scontò poi quattro circa grazie alla mobilitazione internazionale: Aragon, Elsa Triolet, John Updike in prima fila).
Il film è costituito da una serie di quadri, lo dice subito il regista che non vuole raccontare la vita di un poeta ma far rivivere le sue metafore e, con esse, la vita e la cultura del popolo armeno. Andrebbe studiato fotogramma per fotogramma e poi forse non bisognerebbe dire niente per non banalizzare la ricchezze dei motivi che ricorrono identici e variati come la vita.
Non è un flusso o una storia che rimangono impigliati nel cervello ma immagini che vogliono imporsi nella loro staticità, anche il movimento dei gesti ieratici è come se volesse negare se stesso. Niente di più antisovietico di questa contemplazione di un passato senza tempo che ispira sempre uguale il presente. Altro che radioso avvenire e marce varie.
La vita nella sua elementarietà è uguale a se stessa e per trovarsi deve morire come il chicco di grano. La poesia è una forza della natura come un'altra, spira nel vento, sulla scrittura cola il succo dell'uva.
Continua...

5 commenti:

  1. Ho visto questo film forse troppo suggestionata dall'alone di martirio che lo accompagna ed avevo grandi aspettative, che un pò sono state soddisfatte, un pò deluse...
    Sono stati soddisfatti soprattutto gli occhi: l'indubbia bellezza dei "quadri",le attente composizioni, la ricchezza dei colori e le suggestive immagini sono indimenticabili.
    Quello che mi ha deluso e un pò infastidita è l'eccessiva insistenza sulla ieraticità e l'enfasi nell'elevare la vita del poeta ad archetipo puro.
    Indubbiamente i rimandi alla passione, alla santità e al sacrificio possono essere pertinenti, ma mi sono sembrati troppo costruiti ed artefatti. Il grappolo d'uva spremuto, ad es.è un chiaro riferimento orfico, ma quale distanza dall'Orfeo di Rilke!
    Scusami, sono temi che andrebbero approfonditi.
    Qui mi limito solo ad alcune suggestioni.
    Spero di non essere fraintesa.

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  2. Sì, capisco benissimo le tue perplessità. Anche a me sono venute (per non dire a mio marito :) . Per la ieraticità: a livello formale credo che sia tipico proprio della tradizione più orientale, anche le danze hanno quei gesti statici, se non è un ossimoro dirlo. Per quel che riguarda la simbolicità, non so se è costruito, o meglio, credo che sia intenzionalmente costruito perché quei primi quadri mi sembrano messi lì come indice di quello che verrà dopo. Come geroglifici che poi si svilupperanno. Non so, mi sembra che ci sia una specie d sintassi per cui quei geroglifici lì messi un po' sospesi poi si ripetono, si articolano, crescono: la penna del pavone che poi diventa un pavone, i pani che poi vengono variati, l'asino bianco e quello nero, le scale delle più diverse dimensioni, l'uva schiacciata da un piede e poi dai monaci...
    Orfeo credo sia proprio pertinente e associato (cosa tipica della cultura russa di primo novecento) a Cristo. (le spine, i pani e i pesci, le miniature). Tutto viene riassunto nella citazione finale del versetto di Vangelo sul chicco che se non muore...

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  3. Ho conosciuto Paradzhanov al cinema, con La fortezza di Suram, e ne sono rimasto incantato: era un ritorno agli inizi del cinema, a Méliès, al cinema di prima del sonoro.
    Poi ho visto Il colore del melograno, ed era ancora più bello, fuori dal comune, mai vista una cosa così. Non me la sento di fare critica su una cosa così fuori dall'ordinario (ma gli altri film di Paradzhanov non li amo molto, soprattutto l'ultimo; sono molto belli e colorati i primi film, ancora molto "di propaganda" ma belli - lui poi li avrebbe ripudiati)

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  4. Ecco, l'ultimo film (come del resto anche i primi, quelli ripudiati) io non l'ho visto, so che lo ha dedicato a Tarkovskij e che è tratto da una favola di Lermontov. Volevo cercarlo, infatti. Comunque, quello che dici tu a proposito del non sentirsi di fare "critica su una cosa così fuori dall'ordinario" esprime benissimo anche la mia sensazione. Io poi non sono così attrezzata come voi nel GUARDARE.

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  5. L'ultimo film di Paradzhanov (l'ho rivisto pochi giorni fa, "Ashik Kerib", è molto simile a questo, ma c'è molta maniera e i volti non sono quelli che vediamo qui, sono attori che "rifanno" il cinema di Paradzhanov...
    La dedica a Tarkovskij è nel finale ed è la cosa più bella: una colomba che va a posarsi su una cinepresa.

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