Si tratta della storia della caduta di Vincent, ministro dell'agricoltura, che viene fatto fuori da infidi avversari politici e che dalle stelle della fama e del potere deve rientrare nella vita normale del suo variopinto e multietnico quartiere parigino.
Vincent perde lustro e amante glamour, ma ritrova il gusto della compagnia, della vita minuta e la scalcagnata solidarietà dei vecchi amici (compagne di bevute) e la sollecitudine delle sue (numerose) amate.
Il film inizia con l'immagine di un laboratorio che evoca il piacere del lavoro, dell'artigiano che ne capisce. "Oh che buon odore di pino", non fa che affermare questo senso quasi elegiaco del buon fare che presto precipita nella sghignazzata scaramantica di chi si trova alle prese con un costruttore di bare. Il laboratorio è zeppo di persone che si comperano l'estrema dimora e litigano per accaparrarsi il modello prescelto. Un memento mori scanzonato e grottesco fatto di personaggi strambi che poi ritroveremo in vari momenti nel film.
Tutta la storia è un turbinio di personaggi che ritornano quando meno te lo aspetti, sbucano sotto diverse forme e ruoli. Come se la vita fosse una sarabanda dove tutti vagano sotto mentite (o forse solo plurime) spoglie. Per esempio, la donna delle pulizie dell'ufficio del ministro è poi la stessa ciclista che Vincent incrocia più volte senza saperlo e la musicista con cui flirta nel negozio di spartiti. Ci si incrocia, ci si sfiora, nell'intreccio del caso, poche volte ci si riconosce. Allora è bello. Niente primi piani, ma invece tante cornici (finestre, porte, tagli di inquadrature), proprio come dice Simmel. La cornice è ciò che fa l'arte arte. Ritaglia un pezzo di realtà e lo isola e lo rende qualcos'altro.
Nessun commento:
Posta un commento