venerdì 2 luglio 2010

Né riccio, né lupacchiotto e neanche Akakij (II)

25, il Primo giorno a me sembra notevole e non solo un esperimento come ho letto e sentito. 
Certo, Norštejn sperimenta e per farlo usa l'arte dell'avanguardia, russa e non (ma soprattutto russa), l'arte sperimentatrice per eccellenza. Non mi pare un caso che il film si intitoli con una data. Più che una celebrazione per il 50° anniversario del 1917, esso è, infatti, una meditazione sul tempo e in particolare sul tempo azzerato dell'utopia. Ancora una volta i censori dal loro punto di vista hanno fatto benissimo a censurarlo. Perché questo film è tutto nello spirito della pericolosa e "formalistica" avanguardia; il tempo vorticoso da dominare non è più ottocentesco progresso da un lato e accumulazione di passato dall'altro, ma ribaltato sull'asse dello spazio, eterno ritorno, simultaneità, giustapposizione... C'è molto di Chlebnikov in tutto questo e sono sicura che Norštejn ce l'abbia bene in mente. 



Il primo giorno, l'azzeramento del tempo nella ricerca di una dimensione edenica da ricostruire è l'ansia principale di ogni utopia. Il film all'inizio presenta la Сolonna di Alessandro. Si tratta del monumento ad Alessandro I che il fratello, lo zar Nicola I volle erigere nella piazza del Palazzo d'Inverno nel 1829. Non sarà stata casuale la scelta di Norštejn né sarà stata dettata solo dalla sua posizione al centro degli eventi  del 17. Il monumento, infatti, celebra la grandezza dell'impero, ricordato nel suo momento di più alta gloria, le vittorie napoleoniche. E' uno dei simboli del potere imperiale e di tutto il periodo imperiale della storia russa. Infine, ha ricevuto una carica simbolica dalla menzione che Puškin ne fa nella sua Exegi monumentum, dove il poeta contrappone il monumento imperiale - il potere - alla propria poesia, vero monumento garante di eternità, solo apparentemente impotente. Norštejn prende questo oggetto impregnato di semioticità e lo usa come alata lancetta di orologio, che proietta la scansione del tempo nello spazio rotondo della piazza. Una meridiana dalla forma di angelo che porta una croce e indica il cielo. Non credo certo che Norštejn abbia avuto intenti esplicitamente religiosi, non è certo un apologeta del cristianesimo. Ma è curioso che abbia usato questo apparato immaginifico per celebrare l'Ottobre.
Trovo anche  singolare la sequenza al quarto minuto in cui appare per la prima volta (ritornerà verso la fine, ancora più centrale) la contadina di Petrov-Vodkin, intenzionale ripresa dei moduli stilistici dell'icona che era al centro degli interessi teorici e pratici dei pittori avanguardisti (ancora il tempo e lo spazio). Questa madonna della rivoluzione si impone sullo sfondo cubista urbano e piano piano sembra sopraffarlo. Man mano che l'immagine prende nitidezza e assume il ruolo centrale dello schermo la città disgregata cubista si disfa. Inoltre, la parcellizzazione dello spazio e della figura umana cubista rende la militarizzazione della persona, i soldati della guerra odiata e rifiutata non sono diversi dai rivoluzionari che poche sequenze dopo portano la bandiera che spicca con il suo rosso nei toni bianco e neri del cartone.
Essi diventano una teoria meccanicizzata di corpi che formano un tutt'uno nel loro movimento sincronizzato alla Taylor, non a caso un eroe dei poeti proletari e il bersaglio polemico della tragica distopia di Zamjatin Noi. E' fortemente ambivalente quell'immagine che avrebbe dovuto essere celebrativa. Non a caso Norštejn usa il tratto di Malevic il cui quadrato nero è l'antiicona per eccellenza e le cui figure umane negli anni Trenta finiscono per tramutarsi in manichini senza volto.

Il regista è magistrale nel rendere tutta l'ambivalenza della fascinazione per la macchina, per il produttivismo. Quello che per Rodčenko è bellezza, per Chaplin sarà alienazione. Rodčenko contro Filonov, l'artista della Fioritura Universale, della materia indagata nel suo segreto cellulare organico mai esauribile dal freddo meccanicismo della macchina. 
La forza rivoluzionaria sembra così sdoppiarsi: i soldati dai movimenti sincronizzati sono tutt'altra cosa rispetto al popolo, la cui silhouette rossa è tutt'uno con la forza elementare della natura (stichija). Si fa fiamma che guizza e non marcia.
Mi colpisce la città cubista, che da città-giardino (Majakovskij) diventa il vero luogo dell'antiutopia, ricettacolo della feccia, sfruttatori, biechi rappresentanti del vecchio mondo grasso e filisteo (ancora Majakovskij). Allora qui non si parla di rivoluzione marxista, ma della Rivoluzione dello spirito vagheggiata in modo confuso e spesso irresponsabilmente mistificatorio da tutta la cultura russa del primo Novecento. Più che Lenin qui si sente Majakovskij, ancora dopo cinquant'anni. Del resto i versi Majakovskij sono citati e danno il titolo al film.

Le due foto sono di Rodčenko.
25-e  - pervyj den', 1968, 10 min. Registi: Ju. Norštejn e A. Tjurin, Musica: D. Šostakovič, Sojuzmul'tfil'm.

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