martedì 14 settembre 2010

Il viaggio di Giulia: Ancora chiudo gli occhi e vedo il fiume-padre…

Da dove iniziare il racconto di un viaggio? Non ne percepisco ancora la fine ed è difficile parlare al passato. Seguirò il labile filo del tempo anche se le percezioni e i pensieri seguono diverse cronologie. Perciò non sarà un resoconto fedele, ma se per fedeltà possiamo intendere ciò che noi filtriamo e decantiamo nel nostro io, allora non mi sentirò troppo in colpa per le omissioni e i salti di questa narrazione.
Elabuga. Uno scontro con l’oggi. Al di là di ogni aspettativa. Quando un’immagine netta si frantuma in mille pezzi e la realtà quasi ti ride in faccia. Una cittadina bella, pulita, viva e culturalmente all’avanguardia: più musei che negozi alimentari.


È questo l’ultimo (almeno in questa vita) approdo di Marina Cvetaeva, la cadente stazione finale di molti scrittori e artisti condannati all’esilio e al bando? Prima del viaggio la mia Elabuga era molto diversa, un insieme di casupole povere, un luogo dimenticato, dove si era consumato l’ultimo atto di una delle tante tragedie umane di quell’epoca. La mia Elabuga prendeva forma e contorno dalle parole di Marina Ivanovna e dai ricordi delle persone a lei vicine. E le vie per cui camminavo nei giorni della conferenza non mi riportavano a quelle immagini di cui mi sono a lungo nutrita; soltanto la montagna solitaria da cui il fiume Kama si apriva in tutta la sua vastità sembrava parlare una lingua familiare: chissà se Marina era salita su quella collina – verrebbe subito da pensare di sì, lei alpinista innata, non solo di anime, amante fedele delle vette. Ma quale Marina Cvetaeva sbarcò in quel maledetto1941? Aveva ancora la forza di essere?
La pietra nel piccolo cimitero la ricorda in modo solenne. Sono riusciti persino a discutere (e non poco) sulla posizione esatta in cui metterla. Soltanto io non colgo l’importanza dei centimetri? Purchè ci sia un luogo per fermarsi, pensare, pregare, ognuno a suo modo. Per un’anima spartana come quella di Marina Cvetaeva forse sarebbe bastata una croce di legno, ma poco importa. Lei comunque ora riposa in pace.
Yasnaya Polyana. Come a casa; la luce di Yasnaya è ormai un’amica che aspetta gli ospiti di agosto per illuminarli, anche se per breve tempo. La calda sensazione di ritrovare un quadro amato, inalterato: la quiete delle betulle, il volo rapido delle nuvole basse – è tutto così incredibilmente chiaro, come la più semplice delle verità, quella del fiore, dell’erba. L’anima in pace può accogliere e rielaborare i pensieri, i dubbi, le sfide che la mente propone negli incontri, durante i seminari. L’atmosfera è serena, il lavoro serio e profondo. Le domande si alternano, le esperienze vive, di vita e mestiere riempiono la sala; è molto difficile definire cosa significhi tradurre. Il traduttore è un filologo, un interprete, uno studioso, un severo e rigoroso professionista; e allo stesso tempo un cocciuto artigiano, un innamorato che si dà alle sue creature senza risparmiarsi. Risuonano le parole di Lev Tolstoj, le immagini dei suoi funerali, i ricordi e le voci delle persone a lui vicine, gli scandali della sua vita e della sua arte. La profonda amicizia e l’ammirazione di Leonid Osipovic e Boris Leonidovic Pasternak si condensano negli occhi dell’erede, Evgenij Borisovic, e dei suoi cari, riuniti tutti insieme come le belle famiglie di una volta. Il tempo scorre in fretta eppure proprio non si avverte.
E infine il Don. La parte più inattesa del viaggio e forse la più viva. Di quei tre giorni ricordo la perpetua e insaziabile voglia di abbracciare tutto – il cielo, gli alberi, le nuvole. Stringere fisicamente quanto mi circondava, come a volerlo trattenere. Non so cosa sia entrato subito nella pelle, se il silenzio assoluto della riva del fiume, o il vento forte che alzava la polvere e la sabbia, o ancora la steppa e la terra nera, alternanza di aridità e vita che freme. La terra che Osip Emilevich Mandelshtam, nel suo coatto peregrinare, ha cantato e imparato ad amare. Il cernozem mi dice molto, mi ricorda la fertilità delle origini, ribalta la scala cromatico-valoriale (il nero diventa segno positivo) e risuona di canti e voci, da altri uditi e fino a qui arrivati.
Sono più vividi ora nella mia mente le immagini dei cosacchi che sfrecciano sui loro cavalli grazie ai racconti delle persone del luogo e alle meravigliose musiche che risuonavano in più occasioni. Ancora sorrisi, persone gentili e discrete, donne e uomini dagli sguardi così aperti, diversi dalle vacue o tese espressioni moscovite. Sembra un altro mondo, in buona misura lo è, anche se alcuni dettagli ne tradiscono l’appartenenza al nuovo millennio: Vesenskaya è un'altra piccola perla in bilico tra il passato e la modernità dove i bambini festeggiano l’inizio della scuola, il primo settembre, nelle loro splendenti uniformi, tutte fiocchi e calzine bianche ma con in mano i telefonini dell’ultima generazione. Segno dei tempi, un po’ stonato, ma forse inevitabile.
Ma spingendo il passo un po’ più in là arriviamo a Elanskaya, villaggio-quadro, appena uscito da un film di Tarkovskij, almeno questa è la sensazione che ha subito colpito me e Candida. La scala della chiesa in ricostruzione è di una bellezza sconcertante: un testimone muto, posato da mani ben sapienti per tradurre in immagine l’idea dell’immobilità. Tutto il villaggio ha qualcosa di surreale – le case semiabbandonate, il carretto appoggiato su una ruota: gli oggetti, nella loro imperscrutabile quiete, hanno un che di umano eppure sovrannaturale. Per i sentieri del bosco ancora una volta arriviamo alla riva del fiume. In questi luoghi sembra che ogni strada porti a lui, che scorre e veglia senza sosta. Il Don è il batjushka del popolo russo, specchio e antitesi della matjushka Volga che ancora non ho incontrato. Ogni volta che mi avvicino alle sue acque sento che il respiro si fa più libero e inizia a prendere il ritmo della corrente; diventi, senza volere, una cassa di risonanza pronta a farsi toccare da ogni movimento dell’aria, inconsciamente qualcosa ti attraversa e si posa in te, come una carezza d’infanzia.
Poi la gita sul battello, i cavalli, le passeggiate a filo di tramonto – come rendere tutto questo? I pittori sono davvero fortunati da queste parti… L’ultimo giorno di viaggio la tristezza – ah, come è limpida ora al mio orecchio la parola toska! – era davvero grande. Avevo finalmente visto una microscopica parte della Russia vera, non quella frenetica ed europeggiante che Mosca e Pietroburgo rappresentano, ma una provincia meridionale, una terra diversa e gentile. Avevo raccolto storie e suoni magici, ascoltato il vero silenzio e assaggiato un vento caldo e selvaggio. Gli occhi si erano abituati a perdersi nella steppa o a rincorrere i falchi nel cielo. Tutti noi eravamo stati segnati da questa invisibile benedizione, i nostri dialoghi erano sempre ricchi e allegri, il contatto prolungato e stretto ci ha unito. Ho incontrato nuovi volti, ho scoperto sorprendente luce in altri già noti, ho aggiunto fili a trame di amicizia e affetto già ricche.
All’inizio un po’ sconfortata all’idea che sarebbe presto finito tutto, una volta tornata a Mosca mi sono presto resa conto che nulla passa senza lasciare tracce – in questo caso, davvero profonde. Noi cambiamo, ci trasformiamo continuamente ed è nostro dovere permettere a ciò e a chi ci circonda di entrare nella nostra vita e aumentarne il peso, la sostanza, la ricchezza.
Così questo viaggio ora è con me e lo sento vicino: ancora chiudo gli occhi e vedo il fiume-padre…




La foto dei bambini è di Joaquin Fernandez
Giulia De Florio





5 commenti:

  1. Che bello leggerti, lapushka moja! Sei un piacere per la mente :-)
    Ele

    RispondiElimina
  2. Ero qui. Ma anche là. Leggendo. Che bella sensazione.
    Massimiliano

    RispondiElimina
  3. Elabuga adesso è per me qualcosa di più di un nome, grazie all'articolo-diario di Giulia. grazie a te, giulia.

    RispondiElimina
  4. Cara Silvana,
    il tuo commento, come quello dei miei amici prima di te, mi ricordano il senso più grande e bello delle parole, dei viaggi e di tutto ciò che accade nella nostra vita: condividere, portare con se sempre, in modi e in tempi diversi, le persone care e quelle che ancora non conosciamo. Se vi ho dato la possibilità di accompagnarmi e di scoprire attraverso i miei occhi questi luoghi, ne sono semplicemente felice.
    E il blog vive e cresce proprio di questo - perché chi lo ha ideato fa esattamente la stessa cosa: condivide e regala piccole bellezze.
    Grazie a te!

    RispondiElimina
  5. Ne approfitto per unirmi a questa benefica ondata di "grazie". A Giulia Elena, Massimiliano, Francesca, Joaquin, Marisa che leggono, commentano e mi regalano i loro pensieri, immagini ecc. Indispensabili perché la mia idea è quella di superare la virtualità delle parole che galleggiano chissà dove e solidificare una rete di rapporti veri.
    E infine grazie a lei, Silvana, è un onore averla qui. I miei figli ed io siamo cresciuti sui suoi libri.

    RispondiElimina