martedì 7 dicembre 2010

Prepararci alle feste. A tavola con Enzo Bianchi

Stare a tavola, ecco le buone regole
di Enzo Bianchi ("Avvenire", 1 dicembre 2010)
Di tutto il mobilio che arreda una casa, la tavola è forse l’elemento più eloquente. La sua grandezza, in particolare, dice molto dei padroni di casa: se sono una famiglia piccola o numerosa, se per loro la tavola è semplicemente un luogo su cui consumare il cibo oppure uno spazio per stare tutti insieme anche con gli ospiti. Che tristezza una tavola piccola, alla quale non si possono invitare «gli altri», una tavola stretta, magari addirittura «a scomparsa».
Ricordo che un tempo la tavola era un mobile di cui essere orgogliosi: in legno massiccio, collocata come regina al centro della cucina, attirava subito lo sguardo di chi entrava. Le sue gambe solide e mai traballanti, modellate al tornio oppure squadrate, colpivano l’attenzione, al pari del suo piano, sempre in vista, che fosse di marmo o di legno nobile come il ciliegio o il noce, mai avvilito da una squallida cerata, anzi spesso adornato da pochi, semplici, oggetti quotidiani che lo riportavano con gusto alla sua essenza di fulcro di convivialità: un cesto di frutta, una pagnotta e un orcio d’olio, una composizione di zucche ornamentali...

Tutto questo, certo, prima che agli inizi degli anni Sessanta irrompesse la praticissima iattura dei ripiani in formica. Avvenne allora un’autentica rivoluzione: tutti si affrettarono a mettere in cantina o a vendere per pochi spiccioli i vecchi tavoli di solenne austerità per introdurre esili tavoli come rattrappiti, colorati con tonalità assurde. Certo, i nuovi oggetti erano lavabili, non richiedevano più la tovaglia, ma nel contempo smarrivano la loro identità e il loro significato, a volte cedevano anche la solenne e regale collocazione al centro della stanza, magari per far posto al vuoto che consentisse di fissare lo sguardo verso il nuovo idolo, la televisione. Subii a malincuore quel mutamento anche a casa mia, ma con la netta percezione di assistere a qualcosa che aveva a che fare con la barbarie, con il venir meno del senso dello stare a tavola. Ed è quanto purtroppo avvenne...
Eppure la tavola è il luogo attorno al quale si consuma un rito proprio, fra tutti gli animali, solo all’essere umano: quello di mangiare insieme e non in competizione con i propri simili. E, mangiando, parlare insieme: la tavola è il luogo privilegiato per la parola scambiata, per il dialogo: si comunica attraverso il cibo che si mangia e attraverso le parole che si scambiano. Mentre uno parla, gli altri mangiano e ascoltano, poi i ruoli si invertono quasi spontaneamente: chi tace smette di mangiare e inizia a parlare e chi ascolta riprende a mangiare. Forse, anche a questo serviva l’ingiunzione di «non parlare a bocca piena».
Nessuna idealizzazione però in questa intima connessione tra il mangiare e il parlare: quando ci si siede a tavola, mescolato al desiderio e al bisogno di mangiare, c’è anche un sentimento di aggressività verso l’altro; oppure c’è il mutismo ostile che trasforma lo stare insieme in fastidio reciproco. Occorre disciplina, consapevolezza dell’aggressività che ci abita: si tratta di evitare di parlare spinti da ciò che emotivamente ci domina, di vigilare sull’umanizzazione del nostro rapporto con il cibo e con la parola. Non a caso la sapienza monastica prescrive di iniziare i pasti in silenzio, dopo una preghiera di benedizione e ringraziamento. È un atteggiamento che andrebbe ripreso anche fuori da un contesto religioso, trovando adeguate modalità per porre una distanza tra sé e il cibo, per prendere coscienza di non essere i soli o i «primi» attorno a quella tavola e, di conseguenza, vigilare sulle parole che escono dalle nostre labbra.
Se è degna di tal nome, la tavola la si accende quando ci sono invitati. Invitare qualcuno – parenti, amici, conoscenti... – è un atto di grande fede, di profonda fiducia nell’altro: significa infatti chiamarlo, eleggerlo, distinguerlo tra gli altri conoscenti; significa confessare il desiderio di stare insieme, di ascoltarsi, di conoscersi maggiormente.
Chi non pratica questa ospitalità vive in angustie, vive «poco», mi verrebbe da dire. Non conosce la gioia che è maggiore nell’invitare che nell’essere invitati. Occorrerebbe saper invitare senza mai pensare alla reciprocità: l’atto in sé è ricompensa. Non è un caso che anche nel Vangelo, uno degli insegnamenti di Gesù che ridimensiona l’assoluto della reciprocità – oggi tanto di moda quando ci fa comodo – riguarda proprio l’invito a tavola: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio».
Poter dire in verità «la mia casa è aperta, la mia tavola non è solo per me e per i miei» significa aprirsi agli altri, dar loro fiducia, disporsi a lasciarsi arricchire dalla loro presenza, a nutrirsi di sapienza e di amicizia, a veder dischiudersi nuovi orizzonti. Non si tratta di fare della propria tavola un «salotto» che esibisca lo status raggiunto, bensì di saper vivere la fraternità, lo stare insieme, l’amicizia gratuita.
Quando c’è un ospite a tavola cresce la capacità di benedizione e di gratitudine, così che quando giunge il momento dei saluti alla fine del pasto ci si apre a una promessa orientata al futuro: ci sarà ancora un domani per ritrovarci, avremo ancora nuove possibilità di incontro... 
Chi mi ha educato mi diceva sempre che è la tavola il luogo in cui ci esercitiamo a vivere la fede, la speranza, l’amore.
La tavola è il luogo della fiducia nell’altro, dello sperare insieme qualcosa di comune per il futuro, dell’amore nello scegliere, preparare, offrire e servire il cibo agli altri. In questa scuola di umanizzazione tre elementi legano il pasto dall’inizio alla fine: il pane, le bevande e la parola. Ma è la parola che costituisce il legame più profondo fra tutti gli attori del pasto: è la parola che narra gli alimenti diversi che giungono in tavola, è la parola che unisce i presenti e gli assenti, i commensali e gli altri, è la parola che mette in relazione il passato con il presente, aprendoli al futuro.
La parola a tavola può essere davvero strumento di comunione, mezzo privilegiato per conferire senso al pasto, per valorizzare il gusto degli alimenti, per suscitare l’arte dell’incontro. Stare a tavola insieme è un linguaggio universale tra i più determinanti e decisivi per l’umanizzazione di ciascuno di noi. A tavola, piccoli e grandi, vecchi e giovani, genitori e figli, siamo tutti commensali, tutti con lo stesso diritto di parola e con lo stesso diritto al cibo che arricchisce la tavola. Davvero stare a tavola è molto più che saper nutrirsi: è saper vivere.

2 commenti:

  1. Condivido pienamente. Il mangiare insieme, condividere il cibo è l'atto fondante del legame umano e quindi perderne il senso ci mutila più di quello che crediamo. Il lattante che mentre succhia il latte guarda fisso negli occhi la madre ( solo nella specie umana avviene questo speciale rapporto attraverso lo sguardo) stabilisce con lei il primo attaccamento di amore e sicurezza che sarà la pietra miliare di ogni futuro legame di fiducia. Già il poppare è un atto a due e perciò il mangiare da soli è così triste.
    C'è quindi una specie di imprintig per il mangiare insieme, che poi si arricchisce anche di significati culturali ed etici.

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  2. infatti, mi ha fatto pensare questo galateo interiore, quasi dimesso. Una cosa che mi ha colpito è il rifiuto della reciprocità come "obbligo sociale". Implica una grande capacità di donare ma anche di accettare il dono senza sentirsi in obbligo. Non è cosa facile neanche quella, credo che necessiti una grande sicurezza interiore!

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