mercoledì 2 novembre 2011

Dodin a Milano. Un post di Giulia

Anestetizzati dalle crisi, in preda a istantanei fiumi di lacrime per santi ed eroi invero quasi sconosciuti, voglio fermarmi un attimo. E a voce bassa provare a raccontare cosa significhi lavorare con passione e saper donare qualcosa di ciò che si fa.

Lev Abramovič Dodin è un regista teatrale, nato sessanta sette anni fa a Novokuzneck, nella regione di Kemersk durante l’evacuazione. Non si contano i premi ricevuti nel corso della sua carriera iniziata prestissimo, gli elogi di critica e stampa di tutto il mondo, la fama e la gloria ottenute. Suppongo gli facciano piacere, ma lui intanto lavora. Così arriva a Milano, serio e sorridente, con tre capolavori: Tre sorelle, Vita e destino, Zio Vanja.
Čechov e Grossman al Piccolo, per toccare tanti temi, domande, dubbi, paure, dolori e speranze.


«Per la beata parola senza senso»
Il lavoro di Dodin precede di gran lunga l’inizio dello spettacolo (curiosamente mai annunciato con campanelli o abbassamento delle luci, quasi il teatro volesse entrare con naturalezza nel flusso delle cose reali); la sua lettura del testo è profonda, precisa, esatta; ricava l’essenziale e lo mette al centro. Soprattutto in Vita e destino, data la mole dell’opera, è evidentemente il procedimento di scavo radicale, di vaglio minuto delle sequenze e dei fili narrativi da preservare o da mettere a lato. Anche Čechov rivive in tutta la sua maestria, nel tempo lungo dell’oziosa vita dei signori di campagna, nelle insoddisfazioni, gridate o sottaciute, di chi non trova felicità (Ščast’ja net, i ne dolžno byt’ (non c’è felicità e non ci deve essere); Ščast’je ne byvaet, my tol’ko želaem ego (La felicità non arriva, noi la desideriamo soltanto) scandiscono a turno i protagonisti delle Tre sorelle, nell’umanità piena che Anton Pavlovič ha sondato e analizzato per tutta la vita. Le messe in scena si guardano e si parlano (all’ossessivo Ja dovolen – sono soddisfatto del marito di Maša ne Le tre sorelle fanno eco riflesso il dottor Astrov e lo stesso zio Vanja, entrambi estremamente nedovolny žizni – insodisfatti della vita), ma l’approccio è diverso: più loquace la piccola tragedia umana delle Tre sorelle, tra canti e filosofstvovanie (attività entrambe tipicamente russe), più silenziosa quella del burbero zio Vanja, in cui le illustri pause čechoviane si succedono in tutto il loro splendido e carico silenzio.
Il teatro però è gesto, azione, movimento o sua mancanza. E Dodin lo sa bene.

«Sento il leggero fruscio dei teatri...»
La scarna scenografia del regista stupisce; pochi spostamenti meccanici ma un incredibile senso dello spazio - degli spazi - di scena. In Vita e destino nessuna parola poteva rendere meglio la tragica identità tra vincitori e vinti, la grottesca fratellanza di russi e tedeschi divisi da una rete metallica che taglia (ferisce con brutale realismo) il palco a metà: da una parte i condannati, numeri che marciano al gelo, nella neve, e dall’altra i capi, l’autorità, l’Idea al comando. Russa o tedesca, poco importa.
Come è altrettanto magistrale lo spazio dilatato delle Tre sorelle, in cui l’azione non è più chiusa nell’orizzontalità delle quinte, ma le entrate e le uscite degli attori passano attraverso il pubblico, bucano la sala, la coinvolgono nel gioco.
In Zio Vanja è invece la disposizione a parlare più forte: all’inizio la chitarra al centro, appoggiata alla parete (che sembra rimandare con forza all’iconico fucile del Gabbiano); uno dei primi spari moderni - dopo quello del Gabbiano -, fuori scena; i covoni che si abbassano con tutta la loro pesantezza sulle vite della giovane Sonja e di zio Vanja alla fine della piéce, gli sguardi e i movimenti orchestrati del primo atto, in grado di svelare senza equivoci relazioni, sentimenti e umori dei protagonisti.


«A Pietroburgo ci rincontreremo»
Chissà? Chiunque abbia la fortuna di capitare nella capitale culturale della Russia ha l’obbligo - estetico - di visitare il Malyj dramatičeskij teatr di Dodin, dove egli instancabilmente prova, inventa, rielabora i suoi oltre sessanta spettacoli, plasma nuove generazioni di attori, riflette sul suo ruolo e su quello del teatro nel mondo.

Queste mie parole non sono per nulla una critica o un’analisi esaustiva di quanto noi fortunati spettatori abbiamo assistito al Piccolo teatro di Milano la scorsa settimana; sono un piccolo omaggio - come i cinque minuti ininterrotti di applausi sinceri che seguivano ogni spettacolo - a un grande artigiano, un uomo in grado di raccogliere in sé la Russia più bella e più vera e di parlare al contempo a tutti, al di là di spazi e limiti veri o presunti.
Un grazie a uno dei pochi Giusti di questa terra, messaggero di Bellezza che aiuta a farci riflettere e agire un po’ di più.

Il Bene sia con Voi, Lev Abramovič.

Giulia De Florio

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