Facendosi interprete del momento storico che stava vivendo, l'Europa tra le due guerre mondiali, il filosofo russo emigrato a Parigi, Nikolaj Berdjaev, partiva dalla domanda sul vecchio Continente che aveva visto tramontare il proprio primato culturale: la Russia, in virtù della sua trasversalità nei confronti della cultura europea, costituiva un punto di vista privilegiato per un'indagine sulla caratteristiche essenziali del pensiero europeo. Osservando l'esistenza di tanti, diversi Orienti e altrettanti Occidenti, il filosofo russo sfumava la contrapposizione tra Occidente antropocentrico e Oriente teocentrico: Atene e Gerusalemme sono entrambe patrimonio europeo ed entrambe, infatti, sono state dimenticate dalla modernità. Pur attratta dall'Oriente, la Russia aveva sempre vissuto della cultura occidentale, tanto che l'occidentalismo è stato un fenomeno tipico russo: per destino era stata così il luogo d'incontro o di lotta tra mentalità occidentale e mentalità orientale.
Per questo motivo, secondo Berdjaev, l'incontro con la cultura russa avrebbe potuto aiutare l'intera Europa a porsi la questione dell'universalismo (che egli opponeva al vuoto internazionalismo di marca sovietica): tendendo a una cultura senza barriere, dove Occidente e Oriente non fossero più due mondi e due visioni separate, si sarebbe potuta trovare la via per superare nazionalismi pericolosi, senza che le peculiarità di ogni singolo popolo venissero misconosciute.
Berdjaev si inseriva consapevolmente in un argomento d'estrema attualità alla fine degli anni Venti che si andava trascinando da tutto il decennio in Europa: il Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler (1922) e Un nuovo Medioevo di Berdjaev (1924) in Francia avevano trovato eco nella Défense de l'Occident di Henry Massis (che Berdjaev si era premurato di recensire su di una rivista tedesca dal titolo significativo di "Orient und Occident"), ne La tentation de l'Occident di André Malraux (1926), ne La Crise du monde moderne di René Guenon (1927), per non parlare delle numerose opere di Jacques Maritain che affrontavano queste tematiche, soprattutto Primauté du Spirituel.
Anche il termine "universalismo" usato da Berdjaev era in voga in quegli anni, in particolare negli ambienti cattolici francesi dopo una sorta di ubriacatura nazionalista e l'istituzione, alla fine del 1925, da parte di Pio XI della nuova festa di Cristo Re.
Proprio nell'ultima domenica di ottobre del 1925, papa Ratti aveva infatti proclamato la festa liturgica di Cristo Re. Ora il nuovo calendario romano generale la fissa alla domenica che precede l'Avvento. E' dunque in posizione forte perché conclude l'intero ciclo dell'anno liturgico.
Che senso aveva quella festa promulgata proprio in quel dato momento? Che bisogno c'era di proclamare con tanta solennità che Cristo era Re? Perché "il papa parlò"?
La questione era delicata e importante, se Pio XI sentì il bisogno di commissionare a Maritain un libro, intitolato Pourquoi Rome a parlé, al fine di farla finita con l'equivoco che identificava Maurras con il tomismo e il nazionalismo venato di antisemitismo dell'Action Française con il cattolicesimo. La festa di Cristo Re precedeva di qualche mese il pronunciamento negativo della Congregazione del Santo Uffizio su questo movimento francese e la messa all'indice delle opere di Maurras.
Se Cristo è il vero Re, l'universalismo deve imporsi sui nazionalismi di ogni tipo. Nell'Europa che assisteva all'emergere di regimi totalitari sempre più aggressivi questo del papa era un bel segnale. Forse anche oggi nelle prediche di tutta Europa avrebbe dovuto risuonare forte questo monito contro ogni chiusura nazionalistica.
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