martedì 23 aprile 2013

Soggetti ferroviari 1: Riconoscenza di popolo

 
Lungi da me indulgere in irriverenti paragoni, ma come in un romanzo russo dell'Ottocento anche il mio tran tran quotidiano si fa faticosamente strada tra l'odore leggermente rugginoso delle "guide di ferro".
E così, alle 5.44 di mattina, mi può capitare di trovarmi a rabbrividire in una brianzola Astapovo, accanto a radi compagni di viaggio multicolore, un po' stupiti dei miei libri e del mio aspetto. Gli italiani di solito preferiscono dormire o prendere la macchina. Basta un sorriso per iniziare a fare due chiacchiere, magari sull'Idiota, come mi è capitato qualche tempo fa. Ma di solito tutti preferiscono sonnecchiare e prolungare il limbo del sonno.
La ferrovia così mi lega a spazi lontani, non con i binari e il suo dondolante movimento, ma fin dentro lo spazio ristretto del vagone: è uno dei luoghi più democratici e cosmopoliti, il mio Besanino, tutto nuovo e lustro ma senza divisioni di classi o di "ambienti": nessun smart o executive a separare.
Viaggio anche nel tempo e con gli occhi chiusi mi immagino il giovane Emilio. Appena finita la guerra era balzato baldanzoso sul treno della ricostruzione e a Milano aveva trovato lavoro alla Stipel. Penzolava tutto il giorno da pali telegrafici in mezzo alle macerie e sono sicura che alla sera il treno l'avrà preso per un filo, tanto era abituato a penzolare. Sembrava intendere alla lettera il pendolare e così viaggiava spesso aggrappato alla fine del treno o con le gambe a penzoloni. Sempre di corsa per arrivare dappertutto. Quanto ci metteva, allora, il trenino? Meno che adesso probabilmente, ma di certo non c'era la presa per il telefonino e per il computer.

Giovane intraprendente, tanti tarli in testa: un lavoro tutto suo, l'impegno religioso e sociale nell'azione cattolica, il teatro, la politica (giovane nel '48, netta e militante scelta bianca) e poi il sogno futuro di una famiglia nuova, con quella brunetta dolce e minuta, la sorella del suo migliore amico, manco a dirlo. Era un tipo tutto d'un pezzo, Emilio. Integro. Una inesauribile riserva di affetto avrebbe mitigato tutta la vita quella lieve rigidità naturale del suo carattere ribollente. A fornirgliela ci aveva pensato la sua famiglia di origine. In silenzio e senza tante smancerie. Lui era il piccolino di casa, l'ultimo superstite (e l'unico maschio) di una schiera di bambini morti in fasce, come capitava spesso allora. Mi immagino la pena di quella mamma Maria che con il suo volto aperto di vecchia per più di trent'anni mi ha guardato dai muri della casa di Emilio. Diventata la mia casa, a un certo punto. Ma anche mi figuro il padre Peppo, che da ragazza ho visto qualche volta vecchio, vecchissimo, tutto curvo e un po' burbero con il suo toscano in bocca. Quali pensieri amari avrà fatto su quei bambini persi, sulla moglie triste, mentre si affannava tutto il giorno a curvare l'osso per la fabbrica dei pettini? Mestiere durissimo, quello. O durante le lunghe serate del giovedì e del sabato quando usava trasformarsi nel barbiere del paese (e provava le nuove pettinature alla moda sulle figlie riluttanti? il taglio all'umberta in particolare era stato mal digerito). Me la immagino quella coppia, novelli Giuseppe e Maria, nella loro casetta tutta scale e un po' buia. Per il cimitero dei bambini invece non devo fare sforzi, me lo ricordo bene, ho fatto in tempo a vederlo quando ero piccola, negli anni Sessanta. Era di fronte a quello dei grandi, la strada li separava, e non mi pare fosse di dimensioni minori.
Spenzolatosi giù dal treno e corso a casa (come ci andavi, papà in seconda? non lo so, forse in bici, non ti ci vedo a camminare, hai corso tutta la vita, in fretta sei anche morto, non ce l'abbiamo fatta ad acciuffarti), arrivato a casa trovava una michetta. Di quelle tartarughe che fanno in Brianza, sfornate probabilmente da Ricumatt (Enrico matto, i soprannomi nel nostro paese non si attaccano solo all'individuo, ma designano l'intera famiglia per generazioni) o da qualcuno della sua ampia stirpe. E' un pane subito fragrante, ma se aspetti un po' diventa duro o elastico. Quello di Ricu era del secondo tipo. In famiglia lo chiamiamo "pane degli angeli": lo tiri e rimbalza fino al cielo. Ma allora c'era ancora la tessera e la madre e le sorelle sapevano che Emilio aveva una fame forte e robusta che non si lasciava ingannare da burocratiche suddivisioni. E così alla sera lasciavano sempre un panino per lui, oltre la porzione che gli spettava. Ed era vero, tornando da Milano aveva fame, ma quella michetta lui la lasciava sempre lì. La mangiava stantia, possa, il giorno dopo, perché se se l'avesse presa subito la sera, l'indomani qualcuno dei suoi gliene avrebbe lasciato un po' di più, schermendosi e dicendo di non aver avuto fame.
Da allora nella nostra famiglia il cibo non è mancato più. Riconoscenza di popolo anche per quel trenino che ci ha portato e ci porta tutti in giro a lavorare e studiare.
"Riconoscenza di popolo qui eterna nel marmo al nome glorioso dell'ing. Enea Camisasca che sulle guide di ferro addusse alla sua terra natale nuovo lume di vita civile e rinnovate energie d'industria e di commercio. Renate, 6 ottobre 1911".

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