mercoledì 2 novembre 2016

Underground, o un eroe del nostro tempo di Vladimir Makanin





Oggi Vladimir Makanin ha ricevuto il prestigioso premio Jasnaja Poljana (la tenuta di Tolstoj!), insieme a Ohran Pamuk (per la letteratura straniera in traduzione russa). Gli è stato insignito per un romanzo del 1984, Dove il cielo si unisce alle colline, che non mi risulta essere tradotto in italiano e che anche io non ho letto. Nel 2012, però, Sergio Rapetti ha tradotto per Jaca Book un bel libro di Makanin, dal titolo super evocativo: Underground, o un eroe del nostro tempo. E' da qui che si può incominciare. 
Vladimir Makanin è uno scrittore emerso (dal sottosuolo, motivo variamente giocato in tutta la sua produzione) agli inizi della perestrojka. E’ anche conosciuto in Occidente, dove sono state tradotte alcune sue raccolte.
Matematico di formazione, scacchista per passione, Makanin ha sempre scritto racconti o novelle ben congegniate, spesso dalla carica fortemente allegorica come il famoso Laz [Il cunicolo, in italiano per E/O, tradotto da Daniela Di Sora] che tra surrealismo e assurdo riprende la forma della distopia, tradizionale nella letteratura russa del Novecento da Zamjatin in poi. Il radicamento nella tradizione, nella grande tradizione letteraria russa è forse ciò che ha permesso il discreto successo di Makanin che, considerato uno scrittore postmodernista, piace anche a chi - e in Russia sono molti - non può sopportare il gioco cerebrale e apparentemente freddo di tanta letteratura postmodernista che si trastulla con il passato, usandone i tasselli a piacimento e ad arbitrio. La citazione in Makanin (e in Underground le citazioni iniziano dal titolo, Un eroe del nostro tempo, da Lermontov, ma continuano quasi in ogni paragrafo: Il sosia, Corsia numero..., Scherzo di cane, Una giornata di Venedikt Petrovič) è un segnale non di un gioco, ma dell’immersione nella letteratura patria, del sentirsi inserito in una linea, dove l’appartenenza non si misura da segni esteriori (pubblicazioni, riconoscimenti, cultura), ma dal senso di un essere particolare, quello dello scrittore, della sua missione (il suo sguardo compassionevole). 
Nel caso di Underground, per esempio, Dostoevskij non è solo evocato nel titoletto del paragrafo Il sosia o nei riferimenti al sottosuolo (l’underground degli anni Settanta o la strana predilezione del protagonista per la metropolitana), ma più profondamente in certi ritratti di umiliati e offesi, certe figure di donne, di miti e pure che attraversano ignare e intonse il fango più abbruttente, come Sonja Marmeladova di Delitto e castigo. Nel nostro romanzo, peraltro la prima incursione dell’autore nel regno della “forma grande”, c’è un preciso richiamo a Sonja e a Raskol’nikov, quando l’eroe incontra una giovane flautista mezza scema che vive sola e indisturbata in un pensionato di delinquenti e alla quale vorrebbe, ma non riesce, confessare il suo delitto.
E’ difficile in poche parole tracciare un quadro chiaro dell’argomento fondamentale del libro. Già è difficile determinare quale sia questo argomento fondamentale. La psichiatria con le sue armi di pressione e il suo poco rispetto per l’io dei malati? La società russa degli anni Novanta-Duemila con tutto il seguito di naufragi (chi non si adatta al nuovo corso, chi è sempre stato disadattato) o di subitanee emersioni (i “nuovi russi”, i giovani rampanti biznesmeny, gli scrittori più o meno underground che a buon mercato si fanno un nome, sfruttando le esperienze passate, proprie e non...)? La delazione, i delatori, piccoli, ma micidiali complici della repressione dell’epoca brežneviana, ma che ancora oggi cercano di stare a galla, pescando nel torbido? 
O piuttosto questo è un ennesimo libro dove la letteratura riflette su se stessa, sulla propria missione, sul proprio essere qualcosa (che cosa di preciso non è detto) più grande di se stessa, perché il protagonista Petrovič è uno scrittore senza libri, uno scrittore che non ha mai pubblicato, che non ha più nessuna intenzione di pubblicare (rifiuta, quando glielo propongono) e che, addirittura, non scrive più. 
E paradossalmente è lui il vero scrittore, e non chi scrive e si atteggia ad underground finché fa fino, o anche chi, passato da esperienze autentiche, ha conquistato fama e successo, ma ha perso la libertà, o meglio, la capacità di guardare senza nessun condizionamento. La capacità di vedere il mondo come nessuno lo vede, e, al di là della dimensione puramente estetica, di ascoltare le persone e in qualche modo preservare, custodire la loro debolezza. La capacità salvifica della letteratura, però, qui non è più oggetto di fede, l’autore anzi ci ironizza su più di una volta (per esempio, quando una famiglia semplice lo riconosce come lo scrittore che aveva salvato dal cappio un loro amico che stava per suicidarsi, il racconto di come sono andate realmente le cose, invece, chiarisce come l’aspirante suicida fosse solo un ubriacone vanaglorioso che non avrebbe mai messo in pericolo la propria vita).
Nel racconto-monologo del protagonista la storia si snoda attraverso molteplici microstorie, a tratti si ha l’impressione di essere di fronte a tanti racconti-apologhi, tenuti insieme da fili sottili che li legano alla linea narrativa principale, alle vicende, cioè, di Petrovič (l’eroe è chiamato tutto il tempo con il suo patronimico, mai con il nome), uno scrittore che negli anni Settanta partecipava a quel sottobosco underground che, insieme alla battaglia dei diritti civili e alla letteratura proibita d’inizio secolo, alimentava il samizdat’, la protesta sommersa, lo strappo dal conformismo stagnante di quegli anni. Insieme a lui conosciamo in particolare due amici, l’ebreo russo e il russo russo (inizialmente antisemita, come molti russi russi e poi amico per la pelle dell’ebreo russo, fin al punto di collaborare con lui per sostenere e aiutare l’eterogenea massa di ebrei che scelgono di stabilirsi in Israele). Petrovič ha a che fare con molte donne (vecchie, giovani, attiviste impegnate...), tutte, però, con un tratto comune: la sofferenza, la vita allo sbando. Petrovič le riconosce da lontano, dallo sguardo smarrito, dall’andatura dimessa (“è mia, è lei”), e per questo le ama, anzi, arriva al punto di abbandonarle quando la loro vita sembra girare finalmente dal verso giusto.

Il coprotagonista del romanzo, anzi l’ombra di Petrovič sempre in qualche modo presente, è il fratello Venja, Venedikt Petrovič: Petrovič pure lui, dunque, per molti versi costituisce un alter ego dell’eroe. Anche lui un artista (un pittore), anche lui indomito non conformista e per questo messo a tacere dal regime: internato in un ospedale psichiatrico, era stato “curato” dalla psichiatria sovietica e continua ad esserlo da quella un po’ più umana e neutrale odierna - ma il medico si rivela essere lo stesso. Il fratello dalla personalità geniale ed esuberante viene gradatamente privato del proprio io e questa spoliazione della personalità è uno dei temi ricorrenti del libro, il cui eroe non ha nome, è uno scrittore-non scrittore, non ha casa, è un bomž  (un acrostico che significa “senza fissa dimora”), vive senza futuro. Molte altre sono le violenze sull’io che i personaggi devono subire. Petrovič, per esempio, finisce anch’egli in manicomio, in seguito a un accesso di follia, provocato dalla coscienza ingombrante e inconfessata (ma non dal rimorso) dei due delitti di cui si è macchiato (un piccolo delinquente che lo voleva derubare e un delatore). Anche lui, come molti altri, viene spento dai neurolettici e dalla brutalità di chi non lo considera più un essere umano. Solo che per una serie di casi (anche violenti) lui riesce ad uscirne, riesce a ritornare, dopo una serie di rocambolesche disavventure, nel grande casermone ex pensionato, ora diventato un condominio in via di privatizzazione, al suo semilavoro di custode abusivo; egli, infatti, fa la guardia agli appartamenti di chi si deve assentare, cosicché nessuno se ne appropri in assenza dei padroni, e in questo modo riesce a rimediare un tetto quasi tutto l’anno (e questo particolare alza la cortina sul problema abitativo - gli odorosi metri quadrati! - dell’era sovietica e di quella odierna, sulle privatizzazioni e sul clima da Far West senza regole che ne è seguito).
Il libro, tuttavia, si conclude con uno scatto di orgoglio che insieme è anche speranza non solo per questa letteratura senza libri ma con scrittori, ma per la Russia intera: il fratello (e l’orgoglio era un tratto dominante di Venja da giovane) trascinato da due infermieri nel corridoio della psichiatria (il corridoio è un altro topos-metafora del libro, corridoi nel pensionato, negli ospedali, nei lussuosi alberghi dei nuovi ricchi, tunnel nella metro...) che si divincola e dice “vengo da solo”, cosa che in russo suona come ja sam, io stesso, una decisa affermazione del proprio io. Nel finale la metafora allarga le sue maglie sottili e si fa completamente trasparente: “E addirittura si era intestardito, pieno di orgoglio, solo per quell’istante, il genio russo avvilito, umiliato, calpestato, nella merda, eppure ecco, non spingete, arrivo, io da solo!”.
Underground è un libro ben scritto: Makanin, cresciuto come scrittore in un’epoca di dismissione di molti valori, ha continuato a credere tenacemente nel valore della Parola (che scrive sempre rigorosamente con la maiuscola) e con le parole sa giocare in modo molto sottile.
Oggi è l'occasione per rispolverarlo!



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