martedì 6 giugno 2017

La musica, vi prego, sull’amore. Il nuovo disco di Alessio Lega raccontato da Giulia De Florio




E che cosa ci sarà mai ancora da dire su questo nobile e confuso sentimento?
A scorrere distratti una qualsiasi libreria o biblioteca viene male a pensare quante parole sono già state spese sull’oggetto in questione. E quanta musica.
Eppure… c’è amore e amore – e pure modo di cantarlo. Come c’è una sottile differenza tra un tema, una storia e un’urgenza, un pensiero fisso.
Alessio è cantastorie, per le famose non-scelte che il destino fa per te, e la narrazione è tanto parte di lui quanto l’oro per re Mida: canta-conta ciò che tocca, componendo una trama su ogni materiale – soprattutto umano – che incontra. Perciò le sue canzoni sono sempre drammaturgie compiute, nuclei compatti sorretti da melodie cucite su misura (e create da chi, oltre ad avere il talento conficcato nell’orecchio ha anche quello dello psicologo e dell’amico) e restituite dall’energia di un timbro personalissimo e spesso inafferrabile.
Mare Nero, dunque, l’ultima fatica del Nostro, non sembra in apparenza rientrare in queste seppur labili cornici. E non stupisce, visto che un anarchico tende a non amare alcuna costrizione, nemmeno auto-imposta da un sentire che pretenda di guidare ogni scelta. Mare Nero non è un disco di storie, o meglio non lo è nel senso di Malatesta – l’album del 2015 in cui Alessio mischiava come in un antro d’alchimista la denuncia alla Brecht, il mondo popolare di Matteo Salvatore e l’architettura testuale di Brassens (ma ad ascoltarlo, in realtà, possono venire in mente mille e altri numi tutelari). All’apparenza dalle maglie più larghe la nuova creatura ha in realtà gli stessi punti fissi che si ritrovano negli altri suoi progetti – non solo musicali –, perché a muoverli è sempre una sottile fame latente e inquieta di realtà, di mondi attraversati o attraversabili, di ferite da toccare, con uno sguardo dolce, una battuta amara o un pugno chiuso alzato. E nel rimestare di ieri e di oggi ci si porta appresso tutto il bagaglio accumulato e così la ricerca continua, si approfondisce, l’aratro rivanga le zolle e porta a galla la terra più fertile. Entrano suoni e colori di musica, ritmi tzigani e rumori più elettrici, che socchiudono la porta della canzone d’autore pura – di voce e chitarra – a cui Alessio è affezionato, e aprono qualche finestra che fa cambiare aria. Aria intrisa di “sangue e splendore”, come la Lecce barocca e maestosa di Santa Croce che ha guardato muta la rivolta contadina del “novecentoquarantacinque”. Aria di sgombero nei campi nomadi, figlio dello stesso odio che divorò i nazisti a caccia di sinti e rom nel grande falò del porrajmos. Aria di Milano, infettata a pari grado dallo smog e dal consumo, pesti nere che invadono le strade e le stazioni. Aria di oblio per le macchie della nostra storia, quella degli “italiani brava gente” che nella Seconda guerra mondiale, sulle pendici dell’Amba Aradam, hanno compiuto un massacro ignobile contro donne, uomini e bambini etiopi, lasciandoci in dote una parolina – ambaradan, appunto – consumata dall’uso frivolo e ingenuo, ma grondante sangue e memoria calpestata.
Dov’è, allora, l’amore?
Ovunque. Sparso in ogni traccia di Mare Nero, rifratto nelle sue mille sfumature: quello più diretto per una donna amata e perduta, che strappa l’anima o ti illude almeno di averla avuta, anche solo per un po’, quello fugace ma capace di rimettere le ali a posto per i voli a seguire, quello per un giornalista fuori dagli schemi e dagli schermi del perbenismo che a forza di “sbatterci la verità in faccia” ha preso appuntamento con la morte in Iraq, nel 2004. Ma anche per i figli desiderati da chi non può averli per “legge di natura”, in un’Italia ancora così impaurita dal diverso in ogni sua accezione e orientamento, anche sessuale. O per un’idea e un’utopia – quella anarchica – che vuole piegare l’orizzonte della storia.
Non c’è allora in Mare nero il controllo spasmodico dell’architrave che sorregga il discorso, piuttosto un intreccio di archi gettati in avanti a tenere il peso e puntare in mille e più direzioni, quanti sono i mondi che abitano un poeta. Qui, insomma, ribolle tutto il concretissimo mondo di una voce che vive il suo tempo ma che, come sa fare soltanto l’arte vera, si dilata nell’universale, diventa voce per tutti e per ciascuno, bisbiglio attento o urlo di rabbia, onda d’urto che scuote la coscienza e il cuore.
Così oltre a farlo, l’amore, è bene ogni tanto ascoltarlo, farne memoria e speranza, come un fiore in inverno da tenersi ben stretti tra le mani.
Giulia De Florio

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