lunedì 8 febbraio 2010

Il ricordo che si accumula: Kolomenskoe prima parte

Kolomenskoe è un luogo a statuto speciale: lì il ricordo si accumula, quello a breve termine, degli individui (è giocoforza che ci si sia passati, se si è stati a Mosca) e quello a lunga gittata della storia e delle ere. Vi aleggia una strana aurea, tra scavi archeologici ottocenteschi, monumenti architettonici dei secoli XVI e XVII in pietra bianca o di legno, tra scampoli di tragedie dimenticate, come pezzi di storia sottratti alle innondazioni provocate dalle grande dighe siberiani. Su tutto questo le ideologie hanno fatto e stanno facendo, come cercherò di raccontare piano piano, un gran pasticcio.
 Nel 1925 un tal Baranovskij, un architetto, ha cercato di preservare la particolarità del luogo e sottrarlo alle trasformazioni della storia facendolo diventare un complesso museale, adesso è un parco dove si passeggia, si va in giostrina e si mangia un gelato, tra poco il processo si compirà e Kolomenskoe diventerà una sorta di parco dei divertimenti lasveghiano dove la storia si piega allegra alle leggi del marketing. Ma vado per ordine.

A passeggiare a Kolomenskoe nei primi anni Ottanta, magari un grigio pomeriggio di novembre, come minimo veniva la voglia irrefrenabile di fare un film, di certo un brutto film con una nota tarkovskijana, ma in quel momento lì, a ventanni e poco più, sembrava che ci fossero tutti gli ingredienti lì pronti a disposizione: le tante sfumature di grigio che rimbalzavano dal cielo ai tronchi delle betulle (che io invece avevo sempre pensato bianchi sfolgoranti) per tuffarsi nel limaccioso colore ferrigno della Moscova; il terragno marrone del fango (tanto, tantissimo), ma anche del legno ammuffito della casetta di Pietro il Grande (che ci stava lì a fare non si capiva bene) e dei mattoni della Torre dell'Acquedotto (Vodovzvodnaja bašnja), un po' scalcinata che solo dopo molti anni, quando ormai sarebbe stata come nuova bianco fiammante, avrei saputo essere una vestigia di un imponente palazzo del XVII secolo, ora scomparso, ma per poco, come si vedrà.  Camminavo un po' spersa, insieme a una cara amica, affondavamo nel fango (gli ordinati viottoli acciotolati o le scalette di legno sono stati messi solo da poco), sotto le nuvole alte, ché il cielo grigio non era uniforme come da noi al sud, ma era un cielo nordico, mobile, gonfio e cangiante; montavamo su una costa, sprofondavamo in un burroncino (ma come tradurre la parola russa ovrag, borro forse?) dietro l'altro, salivamo su un'altra collina (allora non sapevamo che si trattava di D'jakovo,
 un posto che aveva dato il nome addiruttura a una intera civiltà dell'era del ferro che aveva stretti rappporti con Sciti e Sarmati, e che quella chiesa scrostata e negletta era proprio la famosa Chiesa della Decollazione di San Giovanni Battista), sempre accompagnate da quel onnipresente gracchiare di cornacchie, così caratteristico, così anche amato e struggente che mi sembrava la colonna sonora adatta per il mio film (brutto) tarkovskijano. E alla fine, sbucavamo in un piccolo cimitero abbandonato alla forza vitale del fogliame e delle erbacce che anche in quel tardo autunno riusciva a infestare di rovi le minuscole staccionate intorno alle tombe, le pochissime croci sghembe, le incongrue stelle rosse...
Chissà per qual motivo recondito questo è rimasto uno dei ricordi più vividi della Mosca degli Ottanta. Forse perché così lontano dalla pompa, dagli slogan o dai faccioni che ti beccavano a tradimento appena giravi l'angolo, mi era sembrato un luogo più vero in quel suo abbandono che custodiva strati di passato, un passato, d'accordo, di cui non sapevo quasi niente ma che mi attirava o che perlomeno sembrava in qualche modo giustificare l'idea che mi ero fatta della cosidetta enigmatica anima russa dopo tre anni di università e di letture. Per uno strano destino adesso a Kolomenskoe ci abito quando sto a Mosca e lo tengo d'occhio: quello che succede, a parte i viottoli e i prati curati, non mi piace un granché.
continua...






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