Sergej Choružij a Genova |
"L’altra Modernità: La filosofia russa oggi. Sfide, idee, prospettive per il nuovo millennio". Giovedì scorso, 19 maggio, si è tenuto a Genova un convegno sulla filosofia russa. Tra le tante iniziative spesso strombazzate e tutta immagine, questa è stata un'occasione di confronto e di riflessione, scandita da interventi importanti e dalla stupefacente energia e passione dell'organizzatrice della giornata, la professoressa Alessia Dagnino (certo, supportata da vari patrocini, ma si capiva che l'anima di tutto era lei). Mi piacerebbe parlarne piano piano, per non perderne le suggestioni nel caos e nel rumore quotidiano. Ne darò solo un piccolo assaggio, qualche idea qua e là tratta dai vari momenti senza sistemicità, purtroppo. Il tempo è quello che è.
Naturalmente si è subito cominciato a parlare di idea russa, filosofia russa con il solito accento sull'attributo più che sul sostantivo.
Ecco cosa diceva la presentazione programmatica del convegno:
"Ognuno è responsabile di tutti", scriveva dostoevskij ne I Fratelli Karamazov. Il tragico peso delle parole, la mistificazione della libertà, la lotta tra il bene e il male, la ricerca di un senso ultimo nella vita: le “questioni maledette” poste all’alba del novecento dai grandi pensatori russi, da Solov’ev a dostoevskij, da tolstoj a rozanov, sono state una profetica anticipazione dei cataclismi della storia del secolo appena trascorso, ma non hanno perso la loro attualità.
A vent’anni dallo scioglimento dell’ex unione Sovietica, il pensiero russo ha oggi ancora domande inquietanti da porre all’uomo postmoderno, che nascono in profondità da una incrollabile fiducia nella capacità umana di ricominciare: nel pensiero, nella vita, nel dialogo con l’altro.
il convegno vorrebbe essere un viaggio alla scoperta della “terra incognita” del pensiero russo contemporaneo: dall’interrogazione neosocratica della cultura e delle relazioni interumane (Mamardašvili) alla riflessione sulla vocazione della russia oggi (panarin); dall’analisi della razionalità postmoderna (Stepin, Lektorskij), all’intuizione di una ragione che sa aprirsi
a una speranza più grande di sé (Averincev, Bibichin, Sedakova, Choružij).
Un viaggio guidato dagli stessi protagonisti, testimoni in prima persona di una appassionante avventura intellettuale.
Molto opportunamente Simona Merlo dell'Università della Val d'Aosta ha introdotto il convegno con una riflessione storica sugli ultimi due decenni (ormai sono "20 anni senza URSS", come si dice in Russia, la rete rimbalza ovunque questa espressione, perfino la BBC ha creato un progetto sul tema), e il tema del confronto, del tormentato ma costitutivo rapporto con l'Altro, con l'Europa, con noi , è subito emerso in modo esplicito: la storia della Russia multietnica (un centinaio di etnie di cui solo l'81% russi e l'86 russofoni) sembra essere imperiale per essenza e le sue frontiere di 70000 km quasi costringono la cultura russa ad occuparsi di limite, termine, confine (Bachtin, Florenskij, ma già nel 1911 in Arabeski Andrej Belyj metteva a tema la parola confine come segno di duplicità). La relatrice ha posto l'accento sulla percezione dell'Occidente come spazio vicino ma non coincidente, spazio altro. Qui a me pare fondamentale sottolineare l'idea di percezione, più che di dato reale. Su quella percezione - e forse non solo su un dato reale - si sono costruite le fondamenta dell'identità nazionale. E ciò, a ben vedere, è emerso nel pensiero russo più accorto, tanto che nella discussione su questo tema è subito intervenuto uno dei suoi rappresentanti odierni più significativi, Sergej Choružij, a cui stava a cuore dissipare il campo dalle semplificazioni. In particolare, dall'idea di una realtà sovietica monolitica, rinchiusa negli schemi che la vede come una "nube" amorfa e ridotta a una serie di fenomeni (dissidenza, emigrazione, ortodossia rigida sovietica) che non tengono conto di una maggioranza che pur lavorava, pensava, metteva a punto riflessioni e teorie, pur in condizioni difficili.
Alla stessa conclusione è giunta la relazione di Daniela Steila (di Torino, i torinesi sono stati un po' l'anima teorica del convegno): è tutto più complicato. Steila ha ripercorso alcuni momenti della storia della filosofia russa: la riflessione sull'evoluzione storica del pensiero filosofico russo ha preso così la forma di una la narrazione che dà coerenza e sistema alla propria identità, una narrazione che si fa autocoscienza in bilico tra due diversi atteggiamenti, quello empirico-descrittivo e quello essenzialista (valutativo).
Partendo dalle prime pagine del archimandrita Gavril sulla filosofia russa (1840) e passando dal famoso "ciò che è filosofico non è russo e ciò che è russo non è filosofico" di Solov'ev (1888) che rifletteva un giudizio sulla filosofia russa comune all'epoca (in Russia non ci sono filosofi, solo pensatori), la studiosa è arrivata ai primi anni della rivoluzione che, scompaginando ordini sociali e vite umane, diventa una terribile e spietata occasione per riflettere ex novo anche sulla filosofia russa. Le nuove storie che la mettono a tema sembrano nascere come contraccolpo da un lato al collasso del periodo pietroburghese e dall'altro come reazione alla crisi del pensiero europeo (Špet, Jakovenko e Eršov, 1922). La tappa successiva è quella dell'emigrazione, dove la filosofia russa acquista una missione nazionale, di salvaguardia dell'identità minacciata, unica difesa del patrimonio in pericolo e perseguitato. E' il periodo delle grandi storie di Zenkovskij, di Losskij che hanno dato l'imprinting a tutto lo sguardo sulla filosofia russa nel Novecento. Qui "russo" assumeva un'accezione di valore perso e problematico nel momento successivo (ma cronologicamente coevo), quello sovietico, perché "russo" era entrato pericolosamente in concorrenza con il ben più attuale "sovietico" (nella discussione è affiorata un'altra possibile caratterizzazione: "rossijskij" versus "russkij", oggi particolarmente in voga, che accentua in modo particolare la dimensione nazionale, per non dire nazionalistica).
Infine la sesta e ultima tappa, "dopo l'intervallo" (secondo la fortunata espressione di Choružij), la contemporaneità: dal 1985 la cultura filosofica russa è stata impegnata in un lavoro enorme di riscoperta, nel far ritornare i numerosi nomi dimenticati. La filosofia russa si è trovata di fronte a due importanti compiti: la riappropriazione della filosofia occidentale negata in periodo sovietico (la fenomenologia, ad esempio, riscoperta dalla rivista "Logos") e quella del proprio passato che richiedeva uno sforzo immane di pubblicazione ed edizione dei grandi censurati. La conseguenza è forse stato un esasperato lavoro di recupero e analisi storica e storiografico, sentito come missione, ma che ha rischiato di rimanere circoscritto al momento storiografico?
Se nel decennio 1985-1995 nelle discussioni filosofiche il dibattito sull'idea russa ha avuto un ruolo predominante ruolo, ancora oggi continua a funzionare il modello culturale russo tutto impostato sulla specificità e sulle opposizioni ormai classiche (ragione-Occidente versus cuore-Russia; personalismo occidentale versus collettivismo russo). Il tutto non senza importanti implicazioni ideologiche (e politiche, la specificità russa giustificherebbe specifiche politiche non proprio in linea con la democrazia occidentale).
Tuttavia, al di là del "pensiero ufficiale" in Russia vi è ora un enorme e variegato spazio per la discussione, dai blog alle riviste il panorama è variegato. La tendenza che si osserva netta è quella di riassumere la filosofia sovietica all'interno della filosofia contemporanea. Eval'd Il'enkov, Ščedrovickij e altri anni filosofi degli anni Cinquanta e Sessanta vengono studiati (ne ha parlato in un'altra densa relazione padre Adalberto Mainardi di Bose), non limitando più la ricerca a quello spazio stretto e sacrificato tra l'ortodossia marxista e la dissidenza occupato da filosofi come Merab Mamardašvili o Zinov'ev. Anche grazie a progetti come Russkaja filosofija vo vtoroj poloviny XX veka (Istituto di Filosofia dell'Accademia delle Scienze), "sovietico" non è più in antitesi a "russo", ne è parte, e non solo a causa di una nostalgia diffusa. Libera dalla "nevrosi della unicità", la migliore cultura russa (e questo succede non solo in filosofia, penso alla letteratura, ad esempio) è in grado di ripensare alla propria storia senza inscatolarla in facili schemi. Certo che, con l'aria che tira, sono sempre in agguato pericolose ideologizzazioni di questo discorso, ma proprio incontri come questo genovese potrebbero aiutare a diffondere la consapevolezza qui e là, da noi e da loro, su e giù dal confine. Continua (forse, ahimè!)
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