L'affresco di Dionisij nel Monastero di Feraponto (sito del museo del monastero, www.cultinfo.ru) |
Già e non ancora!
Per noi è già Pasqua e per gli ortodossi sta iniziando ora...
Il tempo della Pasqua si intreccia col tempo del calendario, in una vertigine di intrecci geografici, storici, spirituali. Che strano! Alcuni dei più grandi romanzi della letteratura russa hanno come tema cruciale proprio la Pasqua. Sono romanzi di resurrezione: intuita, adombrata - l'ombra della luce, (appunto, come cantava Battiato tempo fa...), ma mai raffigurata direttamente. Romanzi scanditi dalla liturgia della Settimana Santa, dai suoi giorni... Butto lì a istinto: I fratelli Karamazov, Il Maestro e Margherita, Il dottor Živago... Ma a ben vedere anche alcuni racconti di Čechov, l'Arciereo, per esempio...
Inizio allora per questa Pasqua in ritardo sul mio blog, come nei nostri cortili è in ritardo la Primavera che la prefigura, da Dostoevskij. Ne ho tradotto un brano.
Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov
Parte III Aleša, capitolo IV Cana di Galilea
Era già molto tardi per il monastero, quando Aleša giunse all'eremo; lo fece entrare il frate guardiano da un ingresso speciale. Erano appena suonate le nove: l'ora del riposo e della pace, dopo un giorno tanto angosciante per tutti. Aleša aprì timidamente la porta ed entrò nella cella dello starec, dove ora c'era la sua bara. Oltre a padre Paisij ritiratosi a leggere il Vangelo sulla bara e al novizio Porfirij, esausto per la conversazione della notte precedente e per il trambusto di quella giornata, che dormiva sul pavimento dell'altra stanza del suo pesante, giovano sonno, nella cella non c'era nessuno. Benché avesse sentito entrare Aleša, padre Pajsij non aveva neanche guardato dalla sua parte. Aleša si tenne a destra della porta in un angolo, si inginocchiò e cominciò a pregare. La sua anima era traboccante, ma in modo confuso, e nessuna sensazione emergeva, manifestandosi troppo, anzi, una scacciava l'altra in una specie di rotazione quieta e regolare. Ma si sentiva una dolcezza in cuore e stranamente non se ne stupiva. Di nuovo vedeva davanti a sé quella bara, quel morto tanto prezioso completamente coperto, non aveva in animo quella compassione tormentosa, sorda, intrisa di pianto, come prima di mattina. Davanti alla bara, appena entrato, era crollato come davanti a una immagine sacra, ma era gioia, gioia che splendeva nella sua mente e nel suo cuore. Una finestra della cella era stata spalancata, s'era cambiata l'aria e fatto freschino, "allora, l'odore si era fatto più forte, se si si sono decisi a spalancare la finestra", pensò Aleša. Ma anche questo pensiero dell'odore di decomposizione, che poco prima gli era sembrato così orribile e vergognoso, ora non suscitò in lui l'angoscia di prima e lo sdegno di prima. Cominciò a pregare quieto, ma ben presto si accorse egli stesso di stare pregando quasi macchinalmente. Frammenti di pensieri gli balenavano nell'anima e si incendiavano come stelline, e lì subito si spegnevano, alternandosi con altri, ma in compenso nella sua anima regnava un che di integro, saldo, consolante e lui stesso ne aveva consapevolezza. A tratti cominciava ardentemente una preghiera, aveva un tal desdierio di ringraziare e amare... Ma una volta iniziata la preghiera, passava all'improvviso a qualcos'altro, si faceva pensieroso, dimenticava la preghiera e anche quello che l'aveva interrotta. Stava per mettersi ad ascoltare quello che leggeva padre Paisij, ma davvero esausto, piano piano cominciò a sonnecchiare...
"Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea", leggeva padre Pajsij, " e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli".
"Le nozze? Cos'è... le nozze", frullò come un vortice nella mente di Aleša, "anche per lei c'è felicità... è andata al banchetto... No, non ha preso il coltello, non ha preso il contello... E' stata solo una parola "patetica" Be'... le parole patetiche vanno perdonate, assolutamente. Le parole patetiche consolano l'anima... senza il dolore sarebbe troppo insopportabile per gli uomini. Rakitin se ne è andato per il vicolo. Fino a quando Rakitin penserà alle offese, se ne andrà sempre per il vicolo... Mentre la via... la via è larga, diritta, luminosa, cristallina e c'è il sole alla fine... Ah!... che cosa stanno leggendo?"
"Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino»", sentì Aleša.
"Ah, già, qui mi sono perso qualcosa, e non volevo perderlo, è un passo che amo: è Cana di Galilea il primo miracolo. Ah, quel miracolo, quel caro miracolo! Non il dolore, ma la gioia della gente è venuto a visitare Cristo e compiendo un miracolo per la prima volta ha contribuito alla gioia della gente. «Chi ama la gente, ama anche la loro gioia...» Questo ripeteva ogni istante il defunto, era uno dei suoi pensieri più importanti... Non si può vivere senza gioia, dice Mitja... Già, Mitija... Tutto ciò che è vero e bello è sempre colmo di perdono per tutto, anche questo era lui che lo diceva...".
"E Gesù le dice: Che ho da fare con te, o donna? L'ora mia non è ancora arrivata. Dice la madre ai servitori: tutto quello che vi dirà, fatelo"
"Fatelo... La gioia, la gioia dei poveri, degli uomini molto poveri... Saranno stati certamente poveri, se neanche il vino per le nozze era bastato... Gli storici scrivono che intorno al lago di Genezaret e in tutti quei luoghi allora abitava la popolazione più povera che si possa immaginare... E doveva pur saperlo un altro grande cuore di un'altra grande creatura che si trovava là, Sua madre, che Lui non era venuto soltato per il Suo grande e terribile sacrificio, e che al Suo cuore poteva farsi strada anche la semplice, candida allegria di creature oscure, oscure e ingenue che lo avevano premurosamente invitato alle loro misere nozze. "L'ora mia non è ancora arrivata", dice Lui con un quieto sorriso (deve averle per forza fatto un sorriso mite)... E infatti era forse venuto sulla terra per moltiplicare il vino alle nozze dei poveri? E invece ci è andato e ha fatto come lei gli aveva chiesto... Ah, sta di nuovo leggendo..."
Aleša torna al monastero dopo aver sperimentato una crisi tremenda. Alla morte del suo maestro, lo starec Zosima (incistita nel suo nome grecizzante occhieggia forse la Vita?), si aspettava come tutti che il corpo dell'eremita esalasse anche concretamente un profumo di santità. E invece no! Il cadavere puzza con scandalo di chi misura l'interiore con l'esteriore e vuole una religione manifesta che conquista, persuade con certezze sicure e incontrovertibili.
Se ne va il giovane dal monastero, senza chiedere permesso, come nota addolorato padre Pajsij, colui che diverrà la sua nuova guida. E accetta di farsi tentare, di andare da una donna leggera, lui il puro. E così il vero miracolo avviene. Non con fuochi d'artificio e violenza (sulla natura, sulla nostra intelligenza...), ma tramite la libera scelta di Grušenka, la sciantosa che avrebbe dovuto traviare l'ex novizio e che invece gli vuole bene come a un fratello e depone le abituali arti di seduzione, inaugura un nuovo modo di amare. Questo, dunque, è il vero miracolo nascosto che permette ad Aleša di tornare al monastero. Nella cella dello starec, sulla sua bara. E qui avrà una vera e propria epifania. Un'esperienza di apertura e di immersione in sè... sonnecchiando e ascoltando la lettura del Nozze di Cana. Per inciso, questo episodio del primo miracolo (il miracolo, čudo, è uno dei temi ricorrenti del libro) è raccontato solo da Giovanni (l'evangelista preferito di Dostoevskij, credo) ed è legato alla Pasqua perché subito dopo il suo primo miracolo Gesù si avvia verso Gerusalemme per l'imminenza della Pasqua (Gv. 2).
Dostoevskij mette in relazione il miracolo di Cana con il miracolo non avvenuto del corpo dello starec che si decompone e con le tentazioni di Gesù nel deserto che ritroveremo nel racconto di Ivan Karamazov, La leggenda del Grande Inquisitore (in realtà le corrispondenze sono innumerevoli perché il romanzo è un intreccio incredibile di situazioni, temi che si riflettono, duplicano, provocano l'uno con l'altro, però devo mettere ordine e dipanare la matassa a poco a poco).
Cullato dalla lettura di Pajsij, Aleša finisce per addormentarsi e sogna. Ma prima, nel dormiveglia, fa in tempo ad essere attraversato da un flusso di pensieri a brandelli, già qui Dostoevskij insinua il tema dell'illuminazione e dell'epifania annunciata dalla stella cometa. Qui i pensieri sono come stelline che si accendono e si spengono, in un flusso continuo ma vago. La vaghezza è continuamente sottolineata dalla sovrabbondanza di pronomi, avverbi e aggettivi indefiniti. E dall'onnipresente avverbio vdrug dostoevskijano che significa "improvvisamente" e c'è sempre quando si parla di come procede il pensiero interiore, il sentimento, la sensibilità...
La lingua e l'armamentario della narrazione normale non stanno dietro all'esperienza che sta per fare Aleša e adottano due modi per parlarne:
1. la vaghezza
2. la continua esondazione dal genere normale romanzesco (per uscire nell'agiografia, nel folclore, nella leggenda, ad esempio).
Quella vaghezza, quindi, è solo il segno di un'esperienza che trapassa la normale soglia della coscienza, ma non per negarla, anzi. Pur sconvolto, Aleša è perfettamente presente a se stesso. Inizialmente ha una percezione precisa del mondo che lo circonda (deduce che il corpo puzza sempre di più dalla finestra aperta che nota subito). Ho tradotto io non perché ritenga che le molte traduzioni non siano degne, ma per mantenere tutte le ripetizioni dostoevskijane e mostrare che l'insistenza su determinate parole ha un senso. In questo brano ricorrono alcuni termini che si ritrovano poi in tutto il libro, come gli aggettivi tichij, krotkij, tverdyj, quieto (ma anche sommesso), mite, saldo (duro) riferiti ad Aleša (ma i primi due anche al Cristo della Leggenda). Ricorre anche la parola um, mente, intelligenza, qui legata a serdce, cuore (a sua volta usato anche per la Madonna). Il sonnecchiare di Aleša e l'imminente epifania che sta per conquistare (o si è già conquistata a prezzo della crisi), dunque, parlano a tutto l'essere del giovane: integrità di cuore e intelligenza, mente e sentimento in un'unica completa unità.
Sonnecchiando, dunque, ripensa al primo miracolo di Gesù. Strano miracolo non miracolo di cui nessuno si accorge. Che non dimostra niente. In uno dei primi capitoli Zosima aveva detto che non c'è niente che possa dimostrare l'esistenza della vita eterna. Nessuna certezza sarebbe possibile. Non si può dimostrare ma ci si può convincere e come? chiede la sua interlocutrice. Attraverso l'amore fattivo, concreto. Solo per la via esperienziale di dono al prossimo. Aleša, come il Buon Samaritano, si peoccupa di non passar oltre e corre dai fratelli anche se il suo amato starec sta morendo.
E Cristo, si chiede Aleša, che ci farà mai a quell'umile banchetto? non sarà forse venuto sulla terra per un po' di vino? La grande impresa, il terribile sacrificio del Figlio di Dio e invece... qui abbiamo un oscuro atto di gentilezza. Il divino che si fa quotidiano, direbbe Pasternak. E il quotidiano umano è scandito dalla cura, la cura per la gioia degli altri. La cura per la piccola gioia di misera festa di povera gente. La festa delle feste, la gioia radiosa di luce della Pasqua, traluce nel vino buono che Gesù procura agli sposi che hanno invitato lui e Sua madre. (continua)
Per noi è già Pasqua e per gli ortodossi sta iniziando ora...
Dostoevskij mette in relazione il miracolo di Cana con il miracolo non avvenuto del corpo dello starec che si decompone e con le tentazioni di Gesù nel deserto che ritroveremo nel racconto di Ivan Karamazov, La leggenda del Grande Inquisitore (in realtà le corrispondenze sono innumerevoli perché il romanzo è un intreccio incredibile di situazioni, temi che si riflettono, duplicano, provocano l'uno con l'altro, però devo mettere ordine e dipanare la matassa a poco a poco).
Cullato dalla lettura di Pajsij, Aleša finisce per addormentarsi e sogna. Ma prima, nel dormiveglia, fa in tempo ad essere attraversato da un flusso di pensieri a brandelli, già qui Dostoevskij insinua il tema dell'illuminazione e dell'epifania annunciata dalla stella cometa. Qui i pensieri sono come stelline che si accendono e si spengono, in un flusso continuo ma vago. La vaghezza è continuamente sottolineata dalla sovrabbondanza di pronomi, avverbi e aggettivi indefiniti. E dall'onnipresente avverbio vdrug dostoevskijano che significa "improvvisamente" e c'è sempre quando si parla di come procede il pensiero interiore, il sentimento, la sensibilità...
La lingua e l'armamentario della narrazione normale non stanno dietro all'esperienza che sta per fare Aleša e adottano due modi per parlarne:
1. la vaghezza
2. la continua esondazione dal genere normale romanzesco (per uscire nell'agiografia, nel folclore, nella leggenda, ad esempio).
Quella vaghezza, quindi, è solo il segno di un'esperienza che trapassa la normale soglia della coscienza, ma non per negarla, anzi. Pur sconvolto, Aleša è perfettamente presente a se stesso. Inizialmente ha una percezione precisa del mondo che lo circonda (deduce che il corpo puzza sempre di più dalla finestra aperta che nota subito). Ho tradotto io non perché ritenga che le molte traduzioni non siano degne, ma per mantenere tutte le ripetizioni dostoevskijane e mostrare che l'insistenza su determinate parole ha un senso. In questo brano ricorrono alcuni termini che si ritrovano poi in tutto il libro, come gli aggettivi tichij, krotkij, tverdyj, quieto (ma anche sommesso), mite, saldo (duro) riferiti ad Aleša (ma i primi due anche al Cristo della Leggenda). Ricorre anche la parola um, mente, intelligenza, qui legata a serdce, cuore (a sua volta usato anche per la Madonna). Il sonnecchiare di Aleša e l'imminente epifania che sta per conquistare (o si è già conquistata a prezzo della crisi), dunque, parlano a tutto l'essere del giovane: integrità di cuore e intelligenza, mente e sentimento in un'unica completa unità.
Sonnecchiando, dunque, ripensa al primo miracolo di Gesù. Strano miracolo non miracolo di cui nessuno si accorge. Che non dimostra niente. In uno dei primi capitoli Zosima aveva detto che non c'è niente che possa dimostrare l'esistenza della vita eterna. Nessuna certezza sarebbe possibile. Non si può dimostrare ma ci si può convincere e come? chiede la sua interlocutrice. Attraverso l'amore fattivo, concreto. Solo per la via esperienziale di dono al prossimo. Aleša, come il Buon Samaritano, si peoccupa di non passar oltre e corre dai fratelli anche se il suo amato starec sta morendo.
E Cristo, si chiede Aleša, che ci farà mai a quell'umile banchetto? non sarà forse venuto sulla terra per un po' di vino? La grande impresa, il terribile sacrificio del Figlio di Dio e invece... qui abbiamo un oscuro atto di gentilezza. Il divino che si fa quotidiano, direbbe Pasternak. E il quotidiano umano è scandito dalla cura, la cura per la gioia degli altri. La cura per la piccola gioia di misera festa di povera gente. La festa delle feste, la gioia radiosa di luce della Pasqua, traluce nel vino buono che Gesù procura agli sposi che hanno invitato lui e Sua madre. (continua)
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