Lungi da me indulgere in
irriverenti paragoni, ma come in un romanzo russo dell'Ottocento
anche il mio tran tran quotidiano si fa faticosamente strada tra
l'odore leggermente rugginoso delle "guide di ferro".
E così, alle 5.44 di
mattina, mi può capitare di trovarmi a rabbrividire in una brianzola
Astapovo, accanto a radi compagni di viaggio multicolore, un po'
stupiti dei miei libri e del mio aspetto. Gli italiani di solito
preferiscono dormire o prendere la macchina. Basta un sorriso per
iniziare a fare due chiacchiere, magari sull'Idiota, come mi è
capitato qualche tempo fa. Ma di solito tutti preferiscono
sonnecchiare e prolungare il limbo del sonno.
La ferrovia così mi lega
a spazi lontani, non con i binari e il suo dondolante movimento, ma
fin dentro lo spazio ristretto del vagone: è uno dei luoghi più
democratici e cosmopoliti, il mio Besanino, tutto nuovo e lustro ma
senza divisioni di classi o di "ambienti": nessun smart
o executive a separare.
Viaggio anche nel tempo e
con gli occhi chiusi mi immagino il giovane Emilio. Appena finita la
guerra era balzato baldanzoso sul treno della ricostruzione e a
Milano aveva trovato lavoro alla Stipel. Penzolava tutto il giorno da
pali telegrafici in mezzo alle macerie e sono sicura che alla sera il
treno l'avrà preso per un filo, tanto era abituato a penzolare.
Sembrava intendere alla lettera il pendolare e così viaggiava spesso
aggrappato alla fine del treno o con le gambe a penzoloni. Sempre di
corsa per arrivare dappertutto. Quanto ci metteva, allora, il
trenino? Meno che adesso probabilmente, ma di certo non c'era la
presa per il telefonino e per il computer.
Giovane intraprendente,
tanti tarli in testa: un lavoro tutto suo, l'impegno religioso e
sociale nell'azione cattolica, il teatro, la politica (giovane nel
'48, netta e militante scelta bianca) e poi il sogno futuro di una
famiglia nuova, con quella brunetta dolce e minuta, la sorella del
suo migliore amico, manco a dirlo. Era un tipo tutto d'un pezzo,
Emilio. Integro. Una inesauribile riserva di affetto avrebbe mitigato
tutta la vita quella lieve rigidità naturale del suo carattere
ribollente. A fornirgliela ci aveva pensato la sua famiglia di
origine. In silenzio e senza tante smancerie. Lui era il piccolino di
casa, l'ultimo superstite (e l'unico maschio) di una schiera di
bambini morti in fasce, come capitava spesso allora. Mi immagino la
pena di quella mamma Maria che con il suo volto aperto di vecchia per
più di trent'anni mi ha guardato dai muri della casa di Emilio.
Diventata la mia casa, a un certo punto. Ma anche mi figuro il padre
Peppo, che da ragazza ho visto qualche volta vecchio, vecchissimo,
tutto curvo e un po' burbero con il suo toscano in bocca. Quali
pensieri amari avrà fatto su quei bambini persi, sulla moglie
triste, mentre si affannava tutto il giorno a curvare l'osso per la
fabbrica dei pettini? Mestiere durissimo, quello. O durante le lunghe
serate del giovedì e del sabato quando usava trasformarsi nel
barbiere del paese (e provava le nuove pettinature alla moda sulle
figlie riluttanti? il taglio all'umberta in particolare era stato mal
digerito). Me la immagino quella coppia, novelli Giuseppe e Maria,
nella loro casetta tutta scale e un po' buia. Per il cimitero dei
bambini invece non devo fare sforzi, me lo ricordo bene, ho fatto in
tempo a vederlo quando ero piccola, negli anni Sessanta. Era di
fronte a quello dei grandi, la strada li separava, e non mi pare
fosse di dimensioni minori.
Spenzolatosi giù dal
treno e corso a casa (come ci andavi, papà in seconda? non lo so,
forse in bici, non ti ci vedo a camminare, hai corso tutta la vita,
in fretta sei anche morto, non ce l'abbiamo fatta ad acciuffarti),
arrivato a casa trovava una michetta. Di quelle tartarughe che fanno
in Brianza, sfornate probabilmente da Ricumatt (Enrico matto, i
soprannomi nel nostro paese non si attaccano solo all'individuo, ma
designano l'intera famiglia per generazioni) o da qualcuno della sua
ampia stirpe. E' un pane subito fragrante, ma se aspetti un po'
diventa duro o elastico. Quello di Ricu era del secondo tipo. In
famiglia lo chiamiamo "pane degli angeli": lo tiri e
rimbalza fino al cielo. Ma allora c'era ancora la tessera e la madre
e le sorelle sapevano che Emilio aveva una fame forte e robusta che
non si lasciava ingannare da burocratiche suddivisioni. E così alla
sera lasciavano sempre un panino per lui, oltre la porzione che gli
spettava. Ed era vero, tornando da Milano aveva fame, ma quella
michetta lui la lasciava sempre lì. La mangiava stantia, possa,
il giorno dopo, perché se se l'avesse presa subito la sera,
l'indomani qualcuno dei suoi gliene avrebbe lasciato un po' di più,
schermendosi e dicendo di non aver avuto fame.
Da allora nella nostra
famiglia il cibo non è mancato più. Riconoscenza di popolo anche
per quel trenino che ci ha portato e ci porta tutti in giro a
lavorare e studiare.
"Riconoscenza di
popolo qui eterna nel marmo al nome glorioso dell'ing. Enea Camisasca
che sulle guide di ferro addusse alla sua terra natale nuovo lume di
vita civile e rinnovate energie d'industria e di commercio. Renate, 6
ottobre 1911".
Nessun commento:
Posta un commento