London calling
Quando si ha un Super Io grande come un
trilocale mansardato c’è soltanto un modo per conviverci:
fregarlo. Perciò, quando stai per finire la tesi di dottorato e la
parola “vacanze” per quest’estate l’hai sotterrata nel
giardino del vicino (tanto lui in ferie ci è andato, il maledetto),
basta trovare una mostra indispensabile per scrivere LA verità
finale sul tuo argomento e spacciare tre giorni senza libri e pc per
«missione di ricerca».
Ah, a Londra, of course.
House of Illustration, 2 Granary
Square, King’s Cross London.
Atmosfera da ex fabbrica dimessa, area
riportata in vita con quel misto di finta trascuratezza e compromesso
vecchio/nuovo che agli inglesi riesce sempre bene.
Un piccolo edificio, inaugurato nel
2014 come spazio dedicato all’illustrazione, da maggio a settembre
ospita la mostra A New Childhood. Picture Books from Soviet
Russia.
Tutto il materiale proviene dalla
collezione personale di Sasha Lurye (Aleksandr Lur’e, presumo) che
da ieri si è acquistato la mia personale e imperitura invidia.
L’organizzatrice, Olivia Ahmad,
introduce la mostra sul suo blog
e ne parla con cognizione di causa – lo dico perché non è sempre
così, anche in mostre più famose.
Tre stanze, non troppo grandi,
tappezzate di libri illustrati russi degli anni Venti e Trenta.
Pardon, sovietici. E sì, perché i bolscevichi partono in quarta
sull’argomento infanzia.
Dal 1917 il governo si mobilita in
favore dei bambini, prima di tutto con iniziative concrete e lodevoli
– il numero dei bambini abbandonati o orfani (una Guerra mondiale,
una Rivoluzione e una guerra civile decimano e disperdono famiglie un
po’ dappertutto) è mostruoso, «Infanzia randagia» s’intitola
una sorta di report di inchiesta di V. Zenzinov (tradotto in italiano
nel 1930, un miracolo) che dà un quadro veritiero e tremendo della
situazione.
Nascono colonie, scuole, case e centri
di recupero per ospitare bambini e ragazzi destinati, se non presi in
tempo, a diventare ladri, malavitosi e criminali.
Impossibile, nel Paese del radioso
avvenire.
A fianco e a complemento di politiche
più strettamente sociali ci si muove anche sul fronte culturale. Che
cosa devono leggere i bambini nati nel secondo tumultuoso decennio
del XX secolo in una nazione enorme, devastata dalla guerra e da due
Rivoluzioni, ma ora pronta – almeno così pare – a mettersi alla
guida dei paesi comunisti, a diffondere il verbo marxista-leninista
in tutto il mondo?
Qualcosa però si inceppa: da una parte
insegnanti, pedagoghi, critici ligi – capitanati dalla signora
Lenin (N.K. Krupskaja) mettono al bando la fantasia, l’immaginazione
e la favola: la realtà è cambiata e a lei sola deve pensare il
bambino sovietico. Tecnologia, spirito collettivo, edificazione sono
le parole chiave.
Dall’altra gli anni Venti sono
marchiati a fuoco dalle avanguardie, dai dibattiti – tra tutti e su
tutto; Arvatov chiama a raccolta gli artisti perché diano opere
«utili e comprensibili», le riviste letterarie nascono, si
incrociano, muoiono e risorgono alla velocità della luce, finalmente
elettrica in tutto il Paese («il comunismo è il potere sovietico +
l’elettrificazione del Paese» dice zio Lenin).
È un tumulto senza fine, un
complicatissimo quadro in cui Stato, censura, arte e politica
sembrano viaggiare in cordata, rigidamente vincolati uno all’altro.
È un momento di sfrenato fervore che investe anche la letteratura
per l’infanzia, per la prima volta trattata come genere a sé
stante e come terreno fertile su cui far crescere una tradizione.
Bambini nuovi, libri nuovi
Il libro è a tutti gli effetti la
nuova cattedrale, il monumento della modernità – tuona Lazar –
El – Lissickij, mentre fa scontrare quadrati rossi e neri per
spiegare la vittoria bolscevica a grandi e piccini.
Scrittori e illustratori accettano la
sfida.
Lo fa Maksim Gor’kij con la casa
editrice Vsemirnaja literatura (Letteratura mondiale) – che nel suo
progetto originale contiene anche una corposa selezione di favole e
classici ormai per ragazzi (Twain, Dickens, Swift) –, ma
soprattutto con l’almanacco Elka/Raduga dove trovano spazio poesie
e racconti di V. Chodasevič, M. Vengrov, M. Moravskaja, Saša
Černyj, illustrati da M. Dobužinskij, A. Radakov, S. Čechonin. A
dirigere il tutto c’è l’altissimo e agitatissimo K.I. Čukovskij,
il papà del Coccodrillo più famoso di Pietrogrado.
Lo fa Vera Ermolaeva con «Segodnja»
(Oggi), un collettivo di Pietrogrado in cui lavorano N. Altman,
Ju. Annenkov, N. Lapšin, N. Ljubavina ed E. Turova in collaborazione
con S. Esenin, M. Kuz’min, A. Remizov, N. Vengrov ed E. Zamjatin,
un vero e proprio ponte tra la tradizione modernista e naif del Mir
iskusstva (Bilibin, Benois e compagni) e le nuove spinte
dell’avanguardia (Tatlin, El Lisickij, Malevič) attraverso il
neoprimitivismo e il recupero dell’immaginario popolare, della
tradizione visiva contadina e del lubok di cui si nutrono i
quadri di Gončarova, Filonov, persino Kandinskij.
Nella mostra trova spazio anche una
serie di progetti in lingua yiddish, quando l’internazionalismo è
ancora un obiettivo concreto e perseguito con tutte le forze, e
spunta tra gli altri l’unico volumetto per l’infanzia illustrato
da M. Chagall: La capretta, guarda un po’.
Alfabeti, manuali per imparare a
contare e a fare le operazioni campeggiano al centro della seconda
sala: non sono soltanto bei disegni dai colori accesi e provocatori,
ma rappresentano la battaglia all’analfabetismo che la Russia porta
avanti ostinatamente dall’inizio del secolo.
Dare ai bambini la possibilità di una
minima istruzione vuol dire migliorare le condizioni dell’intera
famiglia; spesso sono loro a leggere ad alta voce i giornali ai padri
e alle madri, tornati a casa dopo una lunga giornata in fabbrica.
Il Paese devastato da carestia, guerra
e povertà tira il fiato con la NEP, nel 1921 si contano più di 300
case editrici tra Mosca e Pietrogrado. Sopra tutte il Detizdat, la
casa editrice per l’infanzia dello Stato che una volta finita la
parentesi della privatizzazione sarà una delle poche funzionanti e
attentamente regolate dall’alto; ma negli anni Venti c’è una Cenerentola che sembra in grado di stampare anche i sogni.
Un Arcobaleno speciale
Tempo fa una prof russa aveva tentato
di convincere me ed Elena che la parola «arcobaleno» («raduga»)
derivasse dall’aggettivo «contento» («rad»); dato che la
signora aveva la verve di una stufa di ghisa non le avevamo dato
molto credito. Dieci anni dopo scopro che il grande V. Dal’ non
esclude la correlazione. Che sia vero o no, la fanno senz’altro
Čukovskij e L. Kljačko quando il primo convince il secondo a
orientare la sua casa editrice alla letteratura per l’infanzia e
non ai libri in lingua yiddish come aveva pensato all’inizio. Nasce
Raduga, fiore all’occhiello del libro per l’infanzia illustrato.
Qui escono tra il 1924 e il 1930 i capolavori assoluti del genere,
quasi tutte le favole in versi di Čukovskij (nella mostra c’è una
splendida Mucha-Cokutucha di V. Konaševič), i capolavori di
Maršak; qui scrittore e illustratore fanno coppia fissa e nasce
infatti una delle più affiatate collaborazioni artistiche (anche
perché basata su una solida amicizia), quella tra Maršak e il re
del libro per l’infanzia – Vladimir Lebedev.
Il messaggio è limpido: il bambino,
soprattutto nei primissimi anni di età si nutre della parola come
dell’immagine, i due linguaggi devono completarsi e fondersi, testo
e illustrazione sono in rapporto di scontro o intesa, ma soltanto
dalla loro unità scaturisce il significato finale. Lo stile di
Lebedev è una sintesi di suprematismo e costruttivismo, di
astrazioni geometriche combinate a un perfetto tratto dei personaggi
e a una padronanza assoluta dei colori; le figure hanno un andamento
plastico e compositivo senza precedenti, ma soprattutto le sue opere
hanno una sorta di brillante giocosità, un’immediatezza che i
bambini colgono e apprezzano.
Scuola di umanità
Girovagando tra le sale della mostra si
può così avere un ottimo assaggio della «rivoluzione nella
Rivoluzione» – quello cioè che hanno rappresentato i primi
vent’anni post-1917 nella letteratura per l’infanzia:
un’esplosione cromatica, sonora, ritmica, fattuale dove il bambino
è finalmente riconosciuto, rispettato e amato per quello che è e
non come replica in piccolo dell’uomo che verrà; un mondo a sua
misura in cui si parla di tecnologia, innovazioni, aritmetica, ma
anche di natura, gioco, viaggio e fantasia, grazie all’ostinata
scuola di ironia, lingua e immaginazione (in una parola: umanità)
che propone la parola di K. Čukovskij, S. Maršak, B. Žitkov, L.
Panteleev, E. Švarc e la linea di V.Lebedev, V. Konaševič, D.
Mitrochin…
«Per i piccoli la felicità è la
norma di vita, la condizione naturale dell’anima» osserva
Čukovskij; i nomi che campeggiano sui muri e nelle teche della
mostra sono quelli degli artisti che hanno cercato di mantenerla,
questa norma, contro un’epoca che stava per diventare un’eterna
notte di velluto nero. Il loro compito, o vocazione, è di
risvegliare nell’anima del bambino la capacità di entrare in
empatia, di sim-patizzare, di gioire e soffrire per l’Altro in modo
incondizionato, qualità senza le quali un essere umano, a qualunque
età, non può dirsi tale.
Nel 1917 come nel 2016.
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