E che cosa
ci sarà mai ancora da dire su questo nobile e confuso sentimento?
A scorrere
distratti una qualsiasi libreria o biblioteca viene male a pensare quante
parole sono già state spese sull’oggetto in questione. E quanta musica.
Eppure… c’è
amore e amore – e pure modo di cantarlo. Come c’è una sottile differenza tra un
tema, una storia e un’urgenza, un pensiero fisso.
Alessio è
cantastorie, per le famose non-scelte che il destino fa per te, e la narrazione
è tanto parte di lui quanto l’oro per re Mida: canta-conta ciò che tocca, componendo
una trama su ogni materiale – soprattutto umano – che incontra. Perciò le sue
canzoni sono sempre drammaturgie compiute, nuclei compatti sorretti da melodie
cucite su misura (e create da chi, oltre ad avere il talento conficcato nell’orecchio
ha anche quello dello psicologo e dell’amico) e restituite dall’energia di un
timbro personalissimo e spesso inafferrabile.
Mare Nero,
dunque, l’ultima fatica del Nostro, non sembra in apparenza rientrare in queste
seppur labili cornici. E non stupisce, visto che un anarchico tende a non amare
alcuna costrizione, nemmeno auto-imposta da un sentire che pretenda di guidare ogni
scelta. Mare Nero non è un disco di storie, o meglio non lo è nel senso di
Malatesta – l’album del 2015 in cui Alessio mischiava come in un antro
d’alchimista la denuncia alla Brecht, il mondo popolare di Matteo Salvatore e
l’architettura testuale di Brassens (ma ad ascoltarlo, in realtà, possono
venire in mente mille e altri numi tutelari). All’apparenza dalle maglie più
larghe la nuova creatura ha in realtà gli stessi punti fissi che si ritrovano
negli altri suoi progetti – non solo musicali –, perché a muoverli è sempre una
sottile fame latente e inquieta di realtà, di mondi attraversati o
attraversabili, di ferite da toccare, con uno sguardo dolce, una battuta amara
o un pugno chiuso alzato. E nel rimestare di ieri e di oggi ci si porta
appresso tutto il bagaglio accumulato e così la ricerca continua, si
approfondisce, l’aratro rivanga le zolle e porta a galla la terra più fertile.
Entrano suoni e colori di musica, ritmi tzigani e rumori più elettrici, che
socchiudono la porta della canzone d’autore pura – di voce e chitarra – a cui
Alessio è affezionato, e aprono qualche finestra che fa cambiare aria. Aria
intrisa di “sangue e splendore”, come la Lecce barocca e maestosa di Santa
Croce che ha guardato muta la rivolta contadina del “novecentoquarantacinque”.
Aria di sgombero nei campi nomadi, figlio dello stesso odio che divorò i
nazisti a caccia di sinti e rom nel grande falò del porrajmos. Aria di Milano, infettata a pari grado dallo smog e dal
consumo, pesti nere che invadono le strade e le stazioni. Aria di oblio per le
macchie della nostra storia, quella degli “italiani brava gente” che nella
Seconda guerra mondiale, sulle pendici dell’Amba Aradam, hanno compiuto un
massacro ignobile contro donne, uomini e bambini etiopi, lasciandoci in dote
una parolina – ambaradan, appunto – consumata dall’uso frivolo e ingenuo, ma
grondante sangue e memoria calpestata.
Dov’è, allora,
l’amore?
Ovunque.
Sparso in ogni traccia di Mare Nero, rifratto nelle sue mille sfumature: quello
più diretto per una donna amata e perduta, che strappa l’anima o ti illude
almeno di averla avuta, anche solo per un po’, quello fugace ma capace di
rimettere le ali a posto per i voli a seguire, quello per un giornalista fuori
dagli schemi e dagli schermi del perbenismo che a forza di “sbatterci la verità
in faccia” ha preso appuntamento con la morte in Iraq, nel 2004. Ma anche per i
figli desiderati da chi non può averli per “legge di natura”, in un’Italia
ancora così impaurita dal diverso in ogni sua accezione e orientamento, anche
sessuale. O per un’idea e un’utopia – quella anarchica – che vuole piegare
l’orizzonte della storia.
Non c’è
allora in Mare nero il controllo spasmodico dell’architrave che sorregga il
discorso, piuttosto un intreccio di archi gettati in avanti a tenere il peso e
puntare in mille e più direzioni, quanti sono i mondi che abitano un poeta. Qui,
insomma, ribolle tutto il concretissimo mondo di una voce che vive il suo tempo
ma che, come sa fare soltanto l’arte vera, si dilata nell’universale, diventa
voce per tutti e per ciascuno, bisbiglio attento o urlo di rabbia, onda d’urto
che scuote la coscienza e il cuore.
Così oltre
a farlo, l’amore, è bene ogni tanto ascoltarlo, farne memoria e speranza, come
un fiore in inverno da tenersi ben stretti tra le mani.
Giulia De Florio
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