Gloria al PCUS |
Ancora su Bulatov e sulle sue nuvole.
In una recente conferenza (che si può ascoltare sul sito di Snob.ru)
l'artista afferma che "il quadro è quello strano oggetto che
fin dall'inizio possiede dei caratteri propri: è dotato di una
superficie piatta e al tempo stesso di uno spazio. E' evidente che
basta tracciare l'orizzonte al centro del quadro per scinderlo
immediatamente in sotto e sopra. L'orizzonte trasforma il sotto in un
piano orizzontale che fugge verso l'alto, nella profondità dello
spazio. Risulta che letteralmente ogni punto della superficie
contiene un tipo definito di energia, ogni volta diverso: quanto più
vicino al centro del quadro e tanto maggiore è la possibilità di
movimento in profondità. Man mano che ci si avvicina al bordo
aumenta invece la possibilità di movimento in superficie".
A guardare i suoi quadri è quasi
scontato pensare alla pop art americana. Ma se gratti un russo non
viene fuori solo un tataro come diceva Napoleone, sgorga anche una
passione ontologica per la realtà che stupefacentemente sfida ogni
astruseria postmodernista.
Nella conferenza di cui sopra Bulatov
ne parla esplicitamente e dice che a un certo punto ha scoperto la
pop art come un alleato. Proprio quando loro, i giovani
concettualisti moscoviti, hanno cominciato ad occuparsi della realtà
seconda che circonda (e che determina, aggiungo io) l'uomo moderno.
La realtà dell'ideologia e della propaganda, per loro che vivevano
in Unione Sovietica, quella della pubblicità e della minuta
costruzione del mondo patinato e plastificato funzionale alla società
dei consumi, per i loro "alleati" occidentali.
Alleati ma anche nemici, dice Bulatov.
Inimicizia, usa proprio questa parola. Perché, esito conseguente di
tutti i sospetti e di tutte le dissoluzioni della modernità, la pop
art considera questa "seconda realtà", la realtà fittizia
che ci avvolge e spinge per definirci, non come seconda ma come
prima, unica e desolatamente unica. Per Bulatov, invece, non è
così:"Mi sono sempre posto la domanda su come ci si possa
liberare da questa realtà. Esiste e io voglio esprimerla, ma
esprimere la sua limitatezza, le sue caratteristiche, la possibilità
o l'impossibilità di balzar fuori dai suoi confini."
Allora quelle sue nuvole che tanto
ricordano Magritte crescono e veleggiano in senso opposto a quelle
del grande artista belga? Non ci trasportano nel regno surreale del
sogno e delle azzurre profondità della nostra psiche, ma sono un
segno della realtà, quella vera (ma che esisterà davvero o svanirà
subito in un turbinio di vapori?). I nostri dentro e fuori non sono
contrapposti/opposti o separati da un limite valicabile solo a
condizioni speciali (arte/sogno). Nella loro autenticità sono uniti,
invece, nella contrapposizione a questa falsa realtà, ossimoro
dolorosamente valido e non solo nella sua declinazione più
minacciosa ed evidente, quella dell'ideologia.
Come nell'opera Gloria al
PCUS, dove le monumentali parole KPSS (Komunističeskaja
Partija Sovetskogo Sojuza) schermano e allontanano il cielo nella
loro aggressiva presa sullo spazio e su di noi. O il precedente
Striscia rossa: due quadri in uno, in realtà. In uno il paesaggio,
la gente, il cielo e nell'altro una striscia rossa che scherma
l'orizzonte, o meglio, ed è più inquietante, che si fa essa stessa
orizzonte. Bulatov nota che se ci fosse solo questa striscia rossa su
di un foglio bianco sarebbe pop art. E invece proprio per questo
scontro della striscia con lo spazio reale si tratta di un quadro
anti-popart. Perché afferma l'esistenza di un mondo vero non
risolvibile tutto nella fiction o nella serie infinita di rimandi
evanescenti o costruiti di un discorso impersonale e potente.
"La striscia rossa non è
necessaria per il quadro, non ha alcuna relazione con il paesaggio,
ma ne ha una diretta con la vita di chi guarda il quadro".
Bulatov racconta del suo rapporto con
il costruttivismo. Va proprio ascoltato, perché in quelle parole e
nei suoi rilievi così tecnici, corre il discrimine tra due diversi
atteggiamenti fondamentali nei confronti dell'arte e della realtà
che io definirei aiutandomi con due periodi diversi usati come
simbolo di due sensibilità: gli anni Dieci e gli anni Venti. Parole
chiave dell'uno ricettività, composizione, artista come sacerdote;
dell'altro attività, costruzione, artista come demiurgo. Simbolismo
versus futurismo/formalismo. Florenskij versus Malevič (o
forse azzardo troppo?).
Ecco cosa dice (e teniamoci in mente
che si sente discepolo di Favorskij, compagno di tante avventure
florenskijane). Benché si senta vicino al costruttivismo, ci tiene a
sottolineare alcune differenze. In primo luogo per lui il punto
focale è l'orizzonte, mentre per i costruttivismo esso quasi non
esiste, lo negano e cercano di liberarsene, quasi sentendolo una
limitazione cogente nello spazio. Per Bulatov, invece, esso è
un'indicazione circa il posto che l'uomo occupa nello spazio. Per
questo chi guarda il quadro è sempre guidato al centro del quadro,
sull'orizzonte. In secondo luogo, i costruttivisti si rivolgono
sempre al fruitore della loro opera, dal quale esigono qualcosa.
Bulatov evita di farlo, non si rivolge mai agli spettatori perché
essi non sono una controparte e perché egli si pone in mezzo a loro.
L'interlocutore non è lo spettatore ma il quadro stesso, a cui
l'artista pone le domande che gli premono e che gli risponde, lo
guida nella comprensione.
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