D'Onegin
l'aerea mole
Come
nube su di me incombente.
Anna
Achmatova, 1962
Soglie. Così le ha chiamate Genette,
usando poi per spiegarle un brutto nome tecnico: paratesto. Le parole
che accompagnano il testo ma non sono proprio testo. Alcune di loro
ci prendono per mano e ci introducono dentro al cuore dell'opera,
guidando con discrezione il nostro sguardo. Le epigrafi, per esempio.
Puškin nell'Evgenij Onegin ha fatto le cose per bene. E
doverosamente ne ha messo una o più di una per ogni capitolo.
Oggi, in treno verso casa, con la
campagna spruzzata di neve, entro con piede leggero e malfermo nel
testo aereo dell'Onegin che come una nuvola non tratterà il mio arto
e lo lascerà sbucare fuori un po' umiduccio per farlo appoggiare
sulla neve effimera dell'autunno, pronta a sciogliersi subito, senza
nemmeno curarsi di conservare la mia impronta. Ombra di fantasma,
questo bianco che non imbianca sul serio, questo bianco che al
passaggio del treno si conserva solo in flebile traccia di sogno
spento e lascia affiorare ostinato il nero della terra e quel po' di
verde che il freddo ha risparmiato.
Primo capitolo, prima neve.
Così si intitola l'elegia del principe Vjazemskij che Puškin appone al primo capitolo.
La
prima neve
Lungo
la vita scivola così l'ardore giovanile:
E
si affretta a vivere e si precipita a sentire!
Invano
si affida a capricci variegati;
Portato
lontano da un desiderio infinito,
Non
vede alcun porto per sé.
Anni
felici! Tempo di malinconia del cuore!
Ma
che dico? Un solo giorno fuggitivo,
Come
sogno ingannatore, come ombra di fantasma,
Balenando,
porti via tu, inganno disumano!
E
anche l'amore, che ci tradisce come fai tu,
Procura
esperienza con spietata lezione
E,
inaridendo i sentimenti, nel cuore solitario
Ci
lascia la traccia di un sogno spento.
P.A.
Vjazemskij (1819)
Solo i primi due versi sono ricordati
da Puškin, ma la sua densa cerchia di lettori aveva ben in mente
quello che seguiva, Vjazemskij era un poeta molto letto. Il capitolo
che segue alla breve epigrafe introduce l'eroe del nostro ossimorico
romanzo in versi. Evgenij Onegin è qui descritto come un dandy
alla moda, vacuo e annoiato, tutto preso a ostentare insieme al
taglio trendy all'inglese un vago spleen artificioso.
Childe Harold in mantella moscovita, prova a definirlo la disillusa
Tatjana tormentata, come tutti noi lettori, Puškin compreso, dalla
domanda sul nostro eroe. Chi è veramente? Quale parola pronunciare
su di lui? Nessuna, probabilmente, come su nessun uomo.
Ma Puškin in questo capitolo non è
per niente tenero con lui. Non risparmia sarcasmo e satira a questo
novello giovin signore e alla sua toeletta mattutina.
Eppure, che strano!, a epigrafe di
questo che è il più satirico dei capitolo dell'Onegin, ci
mette versi elegiaci che fanno un malinconico punto sul fermento che
agita i nostri cuori e le nostre menti in gioventù. Elegia e satira,
ci hanno insegnato, non stanno insieme, sono due sentimenti, due
toni, nettamente contrapposti. E invece Puškin li intreccia stretti,
li combina in una serie di minuti nodi che fanno la densa trama della
sua opera più famosa, intessuta dal filo d'oro della giovinezza che
affiora qua e là dall'ordito. E prende forma il pizzo i cui motivi
geometrici e variegati si ripetono in rigorosa simmetria che curva in
circolo verso la fine.
Il capitolo finale, l'ottavo, quando
l'autore si congeda coi suoi personaggi e, insieme, con la giovinezza
passata, riprende lo stesso tono elegiaco della Prima neve, la
stessa consapevole e malinconica immersione in una nuova età della
vita che scalza la gioventù spensierata.
E allora lo sguardo si fa più composto
e benevolo. Quella poesia di Vjazemskij induce a giudicare altrimenti
il fatuo farfallone del primo capitolo, ad ammorbidire la lingua
tagliente della satira con una comprensione un po' indulgente perché
consapevole della transitorietà di quella effimera tappa. Quei suoi
variegati capricci tanto sbeffeggiati sono il segno, disegnato
dall'epoca (anche i nostri, anche i nostri, così diversi, così
uguali), del desiderio infinito che albergava nel suo cuore e che
trapelava come un'eco lontana inaudibile ai più. Puškin però
l'aveva sentita. E, rimpicciolitosi a personaggio che passeggia per
le pagine del suo stesso romanzo, prende sotto braccio il suo eroe e
lo fa conversare con cognizione di causa di politica e argomenti
sociali. In quello stesso primo capitolo, appena smessi gli abiti del
dandy spensierato e irresponsabile. Vacuità e responsabilità
civile, satira ed elegia: il contenuto e la forma si rinsaldano in
questa rincorsa di contraddizioni che è il tempo della vita,
un'ombra di fantasma che ci cresce a forza di spietate lezioni per
poi dissolversi come questa prima neve, caduta al mattino, dissolta
per sera.
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