sabato 30 novembre 2013

La prima neve




D'Onegin l'aerea mole
Come nube su di me incombente.
Anna Achmatova, 1962

Soglie. Così le ha chiamate Genette, usando poi per spiegarle un brutto nome tecnico: paratesto. Le parole che accompagnano il testo ma non sono proprio testo. Alcune di loro ci prendono per mano e ci introducono dentro al cuore dell'opera, guidando con discrezione il nostro sguardo. Le epigrafi, per esempio. Puškin nell'Evgenij Onegin ha fatto le cose per bene. E doverosamente ne ha messo una o più di una per ogni capitolo.
Oggi, in treno verso casa, con la campagna spruzzata di neve, entro con piede leggero e malfermo nel testo aereo dell'Onegin che come una nuvola non tratterà il mio arto e lo lascerà sbucare fuori un po' umiduccio per farlo appoggiare sulla neve effimera dell'autunno, pronta a sciogliersi subito, senza nemmeno curarsi di conservare la mia impronta. Ombra di fantasma, questo bianco che non imbianca sul serio, questo bianco che al passaggio del treno si conserva solo in flebile traccia di sogno spento e lascia affiorare ostinato il nero della terra e quel po' di verde che il freddo ha risparmiato.
Primo capitolo, prima neve.
Così si intitola l'elegia del principe Vjazemskij che Puškin appone al primo capitolo.

La prima neve
Lungo la vita scivola così l'ardore giovanile:
E si affretta a vivere e si precipita a sentire!
Invano si affida a capricci variegati;
Portato lontano da un desiderio infinito,
Non vede alcun porto per sé.
Anni felici! Tempo di malinconia del cuore!
Ma che dico? Un solo giorno fuggitivo,
Come sogno ingannatore, come ombra di fantasma,
Balenando, porti via tu, inganno disumano!
E anche l'amore, che ci tradisce come fai tu,
Procura esperienza con spietata lezione
E, inaridendo i sentimenti, nel cuore solitario
Ci lascia la traccia di un sogno spento.
                                   P.A. Vjazemskij (1819)


Solo i primi due versi sono ricordati da Puškin, ma la sua densa cerchia di lettori aveva ben in mente quello che seguiva, Vjazemskij era un poeta molto letto. Il capitolo che segue alla breve epigrafe introduce l'eroe del nostro ossimorico romanzo in versi. Evgenij Onegin è qui descritto come un dandy alla moda, vacuo e annoiato, tutto preso a ostentare insieme al taglio trendy all'inglese un vago spleen artificioso. Childe Harold in mantella moscovita, prova a definirlo la disillusa Tatjana tormentata, come tutti noi lettori, Puškin compreso, dalla domanda sul nostro eroe. Chi è veramente? Quale parola pronunciare su di lui? Nessuna, probabilmente, come su nessun uomo.
Ma Puškin in questo capitolo non è per niente tenero con lui. Non risparmia sarcasmo e satira a questo novello giovin signore e alla sua toeletta mattutina.
Eppure, che strano!, a epigrafe di questo che è il più satirico dei capitolo dell'Onegin, ci mette versi elegiaci che fanno un malinconico punto sul fermento che agita i nostri cuori e le nostre menti in gioventù. Elegia e satira, ci hanno insegnato, non stanno insieme, sono due sentimenti, due toni, nettamente contrapposti. E invece Puškin li intreccia stretti, li combina in una serie di minuti nodi che fanno la densa trama della sua opera più famosa, intessuta dal filo d'oro della giovinezza che affiora qua e là dall'ordito. E prende forma il pizzo i cui motivi geometrici e variegati si ripetono in rigorosa simmetria che curva in circolo verso la fine.
Il capitolo finale, l'ottavo, quando l'autore si congeda coi suoi personaggi e, insieme, con la giovinezza passata, riprende lo stesso tono elegiaco della Prima neve, la stessa consapevole e malinconica immersione in una nuova età della vita che scalza la gioventù spensierata.
E allora lo sguardo si fa più composto e benevolo. Quella poesia di Vjazemskij induce a giudicare altrimenti il fatuo farfallone del primo capitolo, ad ammorbidire la lingua tagliente della satira con una comprensione un po' indulgente perché consapevole della transitorietà di quella effimera tappa. Quei suoi variegati capricci tanto sbeffeggiati sono il segno, disegnato dall'epoca (anche i nostri, anche i nostri, così diversi, così uguali), del desiderio infinito che albergava nel suo cuore e che trapelava come un'eco lontana inaudibile ai più. Puškin però l'aveva sentita. E, rimpicciolitosi a personaggio che passeggia per le pagine del suo stesso romanzo, prende sotto braccio il suo eroe e lo fa conversare con cognizione di causa di politica e argomenti sociali. In quello stesso primo capitolo, appena smessi gli abiti del dandy spensierato e irresponsabile. Vacuità e responsabilità civile, satira ed elegia: il contenuto e la forma si rinsaldano in questa rincorsa di contraddizioni che è il tempo della vita, un'ombra di fantasma che ci cresce a forza di spietate lezioni per poi dissolversi come questa prima neve, caduta al mattino, dissolta per sera.




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