Tanti Van'ka anche in questo Natale...
Auguri a tutti!
VAN'KA (1886)
un racconto di Natale di Anton Čechov
Van'ka Žukov, un ragazzetto di nove anni che da tre mesi
stava a bottega dal calzolaio Aljachin per imparare il mestiere, la
notte di Natale non andò a dormire. Dopo aver atteso che i padroni e i
lavoranti uscissero per andare in chiesa, tirò fuori dall'armadio del
padrone la boccetta dell'inchiostro, una penna col pennino arrugginito
e, sistematosi davanti un foglio tutto spiegazzato, incominciò a
scrivere. Prima di tracciare la prima lettera, si voltò alcune volte
timoroso verso la porta e la finestra, guardò di traverso l'icona scura,
ai due lati della quale si allungavano i palchetti con le forme per le
scarpe, e tirò un sospiro. La carta stava su un panchetto e lui s'era
messo in ginocchio davanti al panchetto.
«Caro nonnino, Konstantin Makaryč!» scrisse. «Ti scrivo questa
lettera. Ti faccio tanti auguri per Natale e ti auguro ogni bene dal
Signore Iddio. Non ho più né il padre né la mammina, mi sei rimasto tu
solo.»
Van'ka volse gli occhi alla finestra buia, sulla quale
baluginava il riflesso della sua candeletta, e si raffigurò vivamente il
nonno Konstantin Makaryč, che faceva il guardiano notturno presso i
signori Živarev. È un vecchietto sui sessantacinque anni, piccolo,
magrolino, ma straordinariamente vivace e svelto, con un viso sempre
sorridente e gli occhi da ubriaco. Di giorno dorme nella cucina della
servitù, o passa il tempo a scherzare con le cuoche, di notte, poi,
ravvolto in un ampia pelliccia di montone, fa il giro della proprietà
picchiando sulla sua placca. Dietro di lui, a testa bassa, camminano la
vecchia Kaštanka e un cagnolino, V'jun, così chiamato per il suo color
nero e per il suo corpo lungo come quello di una donnola. Questo V'jun è
straordinariamente rispettoso e cordiale, si comporta con la stessa
dolcezza con quelli di casa e con gli estranei, ma non gode di grande
fiducia. Sotto tanta ossequiosità e umiltà si nasconde la più gesuitica
malizia. Nessuno sa scegliere meglio di lui il momento giusto per
avvicinarsi furtivamente e azzannarti una gamba, o per infilarsi nella
dispensa o per rubare una gallina a un contadino. Più di una volta gli
hanno rotto le zampe posteriori a forza di botte, un paio di volte lo
hanno appeso per la collottola, non passa settimana che non lo frustino a
morte, ma lui risorge sempre.
Ora certamente il nonno sta vicino al portone, strizza gli
occhi alle finestre rosso vivo della chiesa del villaggio e,
scalpicciando per terra con gli stivali di feltro, scherza con le donne
di servizio. Alla cintola tiene appesa la placca; batte le mani per
scaldarsi, si rattrappisce tutto dal freddo e, con la sua stridula
risata da vecchietto va pizzicando ora la cameriera, ora la cuoca.
«Non volete annusare un po' di tabacco?» dice, porgendo alle donne la sua tabacchiera.
Le donne annusano il tabacco e starnutiscono. Il nonno è preso
da un entusiasmo indescrivibile, scroscia in una allegra risata e
grida:
«Staccalo, col gelo s'è attaccato!»
Danno da fiutare il tabacco anche ai cani; Kaštanka
starnutisce, scuote il muso e, offesa, si trae in disparte. V'jun,
invece, per rispetto, non starnutisce e dimena la coda. E il tempo,
intanto, è meraviglioso. L'aria è quieta, diafana e fresca. La notte è
buia, ma si vede tutto il villaggio con i suoi tetti bianchi, le spirali
di fumo che escono dai camini, gli alberi inargentati di brina, i
monticelli di neve. Tutto il cielo è cosparso di stelle che ammiccano
allegre e la via lattea si disegna con tanta nettezza che pare l'abbiano
lavata e strofinata con la neve, per la festa... Van'ka sospirò,
intinse la penna e continuò a scrivere:
«Ieri ho avuto una tirata di capelli. Il padrone mi ha
trascinato per i capelli fino a fuori e mi ha strigliato col tiraforme,
perché mentre cullavo il loro bambino inavvertitamente avevo preso
sonno. Domenica, poi, la padrona mi ordinò di pulire un'aringa, ma io
cominciai dalla coda, e lei prese l'aringa e cominciò a sbattermela in
faccia. I lavoranti si burlano di me, mi mandano alla bettola a
comperare la vodka, mi comandano di rubare i cetrioli dei padroni, e il
padrone mi picchia con tutto quello che gli capita sotto mano. E anche
da mangiare non c'è proprio niente. La mattina mi danno del pane; a
pranzo polenta, e la sera di nuovo pane, e, quanto al tè e alla zuppa di
cavoli, quella roba lì se la pappano i padroni. E mi fanno dormire
nell'ingresso, e quando il bambino loro piange io non dormo più per
niente, e dondolo la culla. Caro nonnino, fammi questa carità, toglimi
di qui e portami a casa, nel villaggio, io non ne posso proprio più.. Te
lo chiedo in ginocchio e pregherò eternamente Iddio per te, ma portami
via di qui, altrimenti ne morirò...»
Van'ka storse la bocca, si passò il suo pugno tutto nero sugli occhi e ruppe in un singhiozzo.
«Ti triterò sempre il tabacco,» continuò, «pregherò Iddio per
te, e se non mi comportassi bene, tu dammele di santa ragione. E se
credi che non potrei fare nessun lavoro, chiederò all'intendente che per
amor di Cristo mi lasci pulire gli stivali, oppure andrò al posto di
Fed'ja come aiuto-pastore. Nonnino caro, non ne posso più, non mi resta
che morire. Volevo scappare al villaggio a piedi, ma non ho scarpe e ho
paura del gelo. Ma quando sarò grande, io per ricompensarti ti manterrò e
non permetterò che nessuno ti maltratti, e quando morirai, pregherò per
la pace dell'anima tua, come prego per mamma Pelageja.
«Mosca, sai, è una città grande. Sono tutte case di signori, e
ci sono molti cavalli, ma pecore nessuna, e i cani non sono cattivi.
Qui i ragazzi non vanno in giro con la stella, e nel coro non ci
prendono nessuno a cantare; una volta ho visto nella vetrina di una
bottega che gli ami li vendono direttamente con la lenza, e per ogni
sorta di pesci, e sono molto cari, c'era perfino un amo che poteva
sostenere un pesce siluro di un quindici chili. Ho visto anche delle
botteghe dove c'erano fucili di ogni tipo, come quelli dei padroni,
tanto che costavano almeno cento rubli l'uno... Nelle macellerie si
trovano galli cedroni, le starne e le lepri, ma i venditori non dicono
dov'è che li prendono.
«Caro nonnino, quando dai padroni faranno l'albero di Natale
coi regalini, prendimi una noce dorata e riponila nel bauletto verde.
Chiedila alla signorina Ol'ga Ignat'evna, dille che è per Van'ka.»
Van'ka tirò un sospiro convulso e tornò a fissare la finestra.
Ricordò che nel bosco, a cercare l'albero di Natale per i padroni, ci
andava sempre il nonno e portava con sé il nipotino. Che ore felici
erano quelle! Il nonno gemeva, il ghiaccio gemeva, e, a guardare loro,
gemeva anche Van'ka. Prima di tagliare l'albero, di solito il nonno
fumava la pipa, fiutava a lungo tabacco, e si burlava di Vanjuska, tutto
infreddolito... I giovani abeti, coperti di brina, stavano immobili,
aspettando di vedere a chi di loro toccava morire. D'un tratto, sbucata
da chissà dove, una lepre vola come una freccia sui cumuli di neve... Il
nonno non può fare a meno di gridare:
«Prendila... prendila! Ah, diavolo senza coda!»
Tagliato l'albero, il nonno lo trascinava fino alla casa dei
padroni, e là si mettevano a decorarlo... Più di tutti si affaccendava
la signorina Ol'ga Ignat'evna, la beniamina di Van'ka. Quando era ancora
viva Pelageja, la madre di Van'ka, e stava dai padroni come cameriera,
Ol'ga Ignat'evna rimpinzava Van'ka di dolci e, per passatempo, gli aveva
insegnato a leggere, a scrivere, a contare fino a cento e perfino a
ballare la quadriglia. Quando poi Pelageja morì, mandarono l'orfanello
Van'ka nella cucina della servitù, col nonno, e di lì a Mosca, dal
calzolaio Aljachin...
«Vieni, caro nonnino,» continuò Van'ka. «Te ne prego in nome
di Cristo Nostro Signore, portami via di qui. Abbi pietà di me, orfano
infelice, qui mi massacrano di botte e ho una gran fame, la noia poi è
indescrivibile e piango sempre. L'altro giorno il padrone mi ha
picchiato sulla testa con una forma da scarpa così forte che sono
cascato in terra e a stento mi sono riavuto. La mia vita è rovinata, è
peggio di quella di un cane... Salutami ancora Alëna, Egor il guercio, e
il cocchiere, e non dare a nessuno il mio organetto. Sono il tuo nipote
Ivan Žukov, caro nonnino, prendi il treno e vieni.»
Van'ka piegò in quattro il foglio scritto e lo mise in una
busta comprata il giorno prima per una copeca... Dopo averci pensato un
attimo, intinse la penna e scrisse l'indirizzo:
«Al nonno, al villaggio».
Poi si grattò la testa, ci pensò su e aggiunse: «A Konstantin
Makaryč». Contento che nessuno gli avesse impedito di scrivere, infilò
il berretto e, senza neanche gettarsi sulle spalle la giacchetta di
pelo, in maniche di camicia com'era, corse in strada...
Certi commessi della macelleria che aveva interpellato il
giorno prima gli avevano detto che le lettere si infilano nelle cassette
postali, e dalle cassette vengono poi portate per tutto il mondo sulle
trojke della posta, guidate da postiglioni ubriachi e tutte squillanti
di campanelli. Van'ka corse fino alla prima cassetta postale e infilò la
preziosa lettera nella fessura...
Cullato da dolci speranze, un'ora dopo egli dormiva
profondamente... Sognava una stufa. Su di essa stava seduto il nonno,
con i piedi scalzi a penzoloni, e leggeva la lettera alle cuoche...
Accanto alla stufa girava V'jun, dimenando la coda...
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