K.D. Flavickij, La principessa Tarakanova (1864) |
Chi subisce violenza è
inchiodato per sempre alla violenza. Se è vero, però, che “l'offeso
è condannato a girare senza fine intorno all'offensore e a
riprodurre le condizioni dell'offesa e a farsi offendere nuovamente”
(R. Girard), è vero anche l'opposto e il carnefice è condannato a
ripetere la stessa violenza se non intraprende un cammino di
redenzione. L'avviluppato rapporto tra vittima e carnefice: è la
vittima che si sente in colpa, si lega al carnefice e ne diventa
complice, ma anche chi esercita violenza sente un particolare
vicinanza con la propria vittima. Il ragno ama la mosca che sta
tormentando?
E molti personaggi di
Dostoevskij, invischiati nel desiderio di possesso e di dominio,
percorrono questa strada. La violenza chiama violenza, il malriposto
bisogno di salvezza si risolve nel consumo di un altro essere umano,
il più delicato, indifeso e puro. Il Demone di Lermontov, l'angelo
caduto sperso negli abissi vuoti dell'essere, brama l'amore della
bella e armoniosa Tamara, mentre i demoni di Dostoevskij si
rimpiccioliscono in un umanità piccina e sporca, chiusa nelle pieghe
del disonore o dell'oppressione sociale, a seconda dei casi.
Il vero sottosuolo è
questo, alla fine. Il sottosuolo di oscure pulsione e contrastanti
desideri. Tanto sottosuolo che non emerge nemmeno nelle parole, come
per l'eroe del sottosuolo. Usare, violare un altro essere umano,
possibilmente fresco e innocente, nella disperata speranza di
approfittare della purezza altrui per salvare se stessi. A volte, la
depravazione può sgorgare assurdamente da uno spiraglio di luce e di
rigenerazione, "uno scopo, una vita nuova", come dice
Vel'čaninov dell'Eterno marito, o "il profumo di mela
appena colta" di cui parla il suo inconcepibile doppio
Trusockij. E' la vana ricerca del sollievo in una vita nuova, della
risurrezione, aggirando l'unica via possibile, quella della kenosis
e del dono di sé.
Nei confini del romanzo,
tuttavia, è necessario che tutto rimanga vago e poco definito.
Di cosa tace Dostoevskij?
Su cosa è reticente? Cosa non può essere specchiato dalla
letteratura?
E' certo molto difficile
parlare del Bene e della sua possibile/impossibile incarnazione nella
realtà, ma è il Male a essere schermato dalle spesse cortine del
non detto e di una consapevole reticenza.
In
Povera gente,
nella Padrona,
nella Festa di Natale
e le nozze, in
Delitto e castigo
fino ai Demoni
e oltre, ci sono poco chiare allusioni alla corruzione di bambine.
Del
peccato più grande, dell'abisso orrendo del male non si può
parlare; questo sì che rimane fuori della letteratura e oltre la
parola. Di questo ha parlato una volta per tutte il Vangelo di Marco:
"Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in
me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina
da mulino e sia gettato nel mare" (Mc. 9, 42).
In
Dostoevskij il male è una sorta di radice nera comune, la materia di
cui sono fatti i suoi eroi, esso entra nelle molle che muovono
l'intreccio della narrazione (la famosa inspiegabilità del
comportamento dei suoi personaggi che tanto irritava Nabokov), ma
rimane al di là della parola. Cominciamo a intravvederlo fin dal
primo romanzo, Povera
gente,
nell'elusiva figura di Bykov, che appare solo una volta in carne e
ossa nel libro, ma il cui nome ricorre continuamente in una sorta di
climax
fino alla sua martellante presenza nelle ultime pagine, come un'ombra
nefasta e posata su numerosi destini, non solo su quello di Varja e
della sua violenza subita, ma non raccontata.
E,
tuttavia, ciò di cui non si parla fino in fondo, paradossalmente, è
presente come uno sfondo oscuro, le cui tracce quotidiane e spesso
zuccherose si intravvedono nelle trame della narrazione e della vita.
La reticenza scoppia,
infine, nei Fratelli Karamazov. Fin dall'inizio Grušen'ka è
rappresentata essenzialmente nel suo essere un corpo. Bellezza né
della Madonna, né di Sodoma, essa è l'evidenza della fisicità come
si impone nella cultura ellenica (non a caso è paragonata alla
Venere di Milo), tutta umana nella sua sottolineata fugacità.
Tuttavia, essa misteriosamente porta in sé la scintilla divina della
propria redenzione. Lei non lo sa, ne tanto meno noi lo sappiamo,
visto che solo alla fine del romanzo apprendiamo che il suo cognome è
Svetlova (da svet, luce).
La questione della
violenza sadomasochista sulle donne (legata a quella sui bambini e
agli impulsi al limite della pedofilia di Fedor Karamazov) è
anticipata, tra l'altro, dall'aneddoto scabroso delle giovani
contadine punite con la fustigazione pubblica, fatta eseguire dai
giovanotti loro potenziali mariti, aneddoto che sottende la
problematica esplosiva della sessualità come violazione e possesso.
Per questo il tema di Grušen'ka, quello della donna da possedere, è
sempre associato a quello del denaro (che per lo stesso motivo
intorbida anche la relazione tra Dmitrij e Katerina Ivanovna.) Non è
un caso che il casto Aleša sia descritto come gli evangelici uccelli
del cielo e i fiori di campo, assolutamente indifferente alle
tentazioni pecuniarie.
Egli, però, “trova la
salvezza in Grušen'ka piuttosto che in padre Paisij” (L.
Pareyson). E' il corpo violato di Grušen'ka il tramite della sua (e
di quella di Dmireij) salvezza.
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