Oggi Vladimir Makanin ha ricevuto il prestigioso premio Jasnaja Poljana (la tenuta di Tolstoj!), insieme a Ohran Pamuk (per la letteratura straniera in traduzione russa). Gli è stato insignito per un romanzo del 1984, Dove il cielo si unisce alle colline, che non mi risulta essere tradotto in italiano e che anche io non ho letto. Nel 2012, però, Sergio Rapetti ha tradotto per Jaca Book un bel libro di Makanin, dal titolo super evocativo: Underground, o un eroe del nostro tempo. E' da qui che si può incominciare.
Vladimir Makanin è uno scrittore emerso (dal
sottosuolo, motivo variamente giocato in tutta la sua produzione)
agli inizi della perestrojka.
E’ anche conosciuto in Occidente, dove sono state tradotte alcune
sue raccolte.
Matematico di formazione, scacchista per passione, Makanin ha sempre scritto racconti o novelle ben
congegniate, spesso dalla carica fortemente allegorica come il famoso
Laz [Il cunicolo, in italiano per E/O, tradotto da Daniela Di Sora] che
tra surrealismo e assurdo riprende la forma della distopia,
tradizionale nella letteratura russa del Novecento da Zamjatin in
poi. Il radicamento nella tradizione, nella grande tradizione
letteraria russa è forse ciò che ha permesso il discreto successo
di Makanin che, considerato uno scrittore postmodernista, piace anche
a chi - e in Russia sono molti - non può sopportare il gioco
cerebrale e apparentemente freddo di tanta letteratura postmodernista
che si trastulla con il passato, usandone i tasselli a piacimento e
ad arbitrio. La citazione in Makanin (e in Underground
le citazioni iniziano dal titolo, Un eroe del
nostro tempo, da Lermontov, ma continuano
quasi in ogni paragrafo: Il sosia, Corsia
numero..., Scherzo di cane, Una giornata di Venedikt Petrovič)
è un segnale non di un gioco, ma dell’immersione nella letteratura
patria, del sentirsi inserito in una linea, dove l’appartenenza non
si misura da segni esteriori (pubblicazioni, riconoscimenti,
cultura), ma dal senso di un essere particolare, quello dello
scrittore, della sua missione (il suo sguardo compassionevole).
Nel
caso di Underground,
per esempio, Dostoevskij non è solo evocato nel titoletto del
paragrafo Il sosia o
nei riferimenti al sottosuolo (l’underground
degli anni Settanta o la strana predilezione del protagonista per la
metropolitana), ma più profondamente in certi ritratti di umiliati e
offesi, certe figure di donne, di miti
e pure che attraversano ignare e intonse il fango più abbruttente,
come Sonja Marmeladova di Delitto e castigo.
Nel nostro romanzo, peraltro la prima incursione dell’autore nel
regno della “forma grande”, c’è un preciso richiamo a Sonja e
a Raskol’nikov, quando l’eroe incontra una giovane flautista
mezza scema che vive sola e indisturbata in un pensionato di
delinquenti e alla quale vorrebbe, ma non riesce, confessare il suo
delitto.
E’ difficile in poche parole tracciare un quadro
chiaro dell’argomento fondamentale del libro. Già è difficile
determinare quale sia questo argomento fondamentale. La psichiatria
con le sue armi di pressione e il suo poco rispetto per l’io dei
malati? La società russa degli anni Novanta-Duemila con tutto il seguito di naufragi (chi
non si adatta al nuovo corso, chi è sempre stato disadattato) o di
subitanee emersioni (i “nuovi russi”, i giovani rampanti
biznesmeny, gli
scrittori più o meno underground
che a buon mercato si fanno un nome, sfruttando le esperienze
passate, proprie e non...)? La delazione, i delatori, piccoli, ma
micidiali complici della repressione dell’epoca brežneviana,
ma che ancora oggi cercano di stare a galla, pescando nel torbido?
O
piuttosto questo è un ennesimo libro dove la letteratura riflette su
se stessa, sulla propria missione, sul proprio essere qualcosa (che
cosa di preciso non è detto) più grande di se stessa, perché il
protagonista Petrovič
è uno scrittore senza libri, uno scrittore che non ha mai
pubblicato, che non ha più nessuna intenzione di pubblicare
(rifiuta, quando glielo propongono) e che, addirittura, non scrive
più.
E paradossalmente è lui il vero scrittore, e non chi scrive e
si atteggia ad underground
finché fa fino, o anche chi, passato da esperienze autentiche, ha
conquistato fama e successo, ma ha perso la libertà, o meglio, la
capacità di guardare senza nessun condizionamento. La capacità di
vedere il mondo come nessuno lo vede, e, al di là della dimensione
puramente estetica, di ascoltare le persone e in qualche modo
preservare, custodire la loro debolezza. La capacità salvifica della
letteratura, però, qui non è più oggetto di fede, l’autore anzi
ci ironizza su più di una volta (per esempio, quando una famiglia
semplice lo riconosce come lo scrittore che aveva salvato dal cappio
un loro amico che stava per suicidarsi, il racconto di come sono
andate realmente le cose, invece, chiarisce come l’aspirante
suicida fosse solo un ubriacone vanaglorioso che non avrebbe mai
messo in pericolo la propria vita).
Nel racconto-monologo del protagonista la storia si
snoda attraverso molteplici microstorie, a tratti si ha l’impressione
di essere di fronte a tanti racconti-apologhi, tenuti insieme da fili
sottili che li legano alla linea narrativa principale, alle vicende,
cioè, di Petrovič
(l’eroe è chiamato tutto il tempo con il suo patronimico, mai
con il nome), uno scrittore che negli anni Settanta partecipava a
quel sottobosco underground
che, insieme alla battaglia dei diritti civili e alla letteratura
proibita d’inizio secolo, alimentava il samizdat’,
la protesta sommersa, lo strappo dal conformismo stagnante di quegli
anni. Insieme a lui conosciamo in particolare due amici, l’ebreo
russo e il russo russo (inizialmente antisemita, come molti russi
russi e poi amico per la pelle dell’ebreo russo, fin al punto di
collaborare con lui per sostenere e aiutare l’eterogenea massa di
ebrei che scelgono di stabilirsi in Israele). Petrovič
ha a che fare con molte donne (vecchie, giovani, attiviste
impegnate...), tutte, però, con un tratto comune: la sofferenza, la
vita allo sbando. Petrovič
le riconosce da lontano, dallo sguardo smarrito, dall’andatura
dimessa (“è mia, è lei”),
e per questo le ama, anzi, arriva al punto di abbandonarle quando la
loro vita sembra girare finalmente dal verso giusto.
Il coprotagonista del romanzo, anzi l’ombra di
Petrovič
sempre in qualche modo presente, è il fratello Venja, Venedikt
Petrovič:
Petrovič
pure lui, dunque, per molti versi costituisce un alter
ego dell’eroe. Anche lui un artista (un
pittore), anche lui indomito non conformista e per questo messo a
tacere dal regime: internato in un ospedale psichiatrico, era stato
“curato” dalla psichiatria sovietica e continua ad esserlo da
quella un po’ più umana e neutrale odierna - ma il medico si
rivela essere lo stesso. Il fratello dalla personalità geniale ed
esuberante viene gradatamente privato del proprio io e questa
spoliazione della personalità è uno dei temi ricorrenti del libro,
il cui eroe non ha nome, è uno scrittore-non scrittore, non ha casa,
è un bomž (un acrostico che significa
“senza fissa dimora”), vive senza futuro. Molte altre sono
le violenze sull’io che i personaggi devono subire. Petrovič,
per esempio, finisce anch’egli in manicomio, in seguito a un
accesso di follia, provocato dalla coscienza ingombrante e
inconfessata (ma non dal rimorso) dei due delitti di cui si è
macchiato (un piccolo delinquente che lo voleva derubare e un
delatore). Anche lui, come molti altri, viene spento dai neurolettici
e dalla brutalità di chi non lo considera più un essere umano. Solo
che per una serie di casi (anche violenti) lui riesce ad uscirne,
riesce a ritornare, dopo una serie di rocambolesche disavventure, nel
grande casermone ex pensionato, ora diventato un condominio in via di
privatizzazione, al suo semilavoro di custode abusivo; egli, infatti,
fa la guardia agli appartamenti di chi si deve assentare, cosicché
nessuno se ne appropri in assenza dei padroni, e in questo modo
riesce a rimediare un tetto quasi tutto l’anno (e questo
particolare alza la cortina sul problema abitativo - gli odorosi
metri quadrati! - dell’era sovietica e di quella odierna, sulle
privatizzazioni e sul clima da Far West senza regole che ne è
seguito).
Il libro, tuttavia, si conclude con uno scatto di
orgoglio che insieme è anche speranza non solo per questa
letteratura senza libri ma con scrittori, ma per la Russia intera: il
fratello (e l’orgoglio era un tratto dominante di Venja da giovane)
trascinato da due infermieri nel corridoio della psichiatria (il
corridoio è un altro topos-metafora
del libro, corridoi nel pensionato, negli ospedali, nei lussuosi
alberghi dei nuovi ricchi, tunnel nella metro...) che si divincola e
dice “vengo da solo”, cosa che in russo suona come ja
sam, io stesso, una decisa affermazione del
proprio io. Nel finale la metafora allarga le sue maglie sottili e si
fa completamente trasparente: “E addirittura si era intestardito,
pieno di orgoglio, solo per quell’istante, il genio russo avvilito,
umiliato, calpestato, nella merda, eppure ecco, non spingete, arrivo,
io da solo!”.
Underground è un libro ben
scritto: Makanin, cresciuto come scrittore in
un’epoca di dismissione di molti valori, ha continuato a credere
tenacemente nel valore della Parola (che scrive sempre rigorosamente
con la maiuscola) e con le parole sa giocare in modo molto sottile.
Oggi è l'occasione per rispolverarlo!
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