Finalmente.
Finalmente mi siedo e con calma leggo tutto di un fiato
questo libro, di cui ho intravvisto l’origine, di cui tanto ho sentito parlare,
ho letto e leggiucchiato pezzetti qua e là.
E leggerlo intero, non i brandelli su FB o i brani citati dagli amici,
fa tutta un’altra impressione.
Dal pubblico, alla presentazione a Parma, tra gli affettuosi adepti dei
“Diari di bordo”, sale la domanda, ma “Mariolina, come fai a ricordare tanto e
cose così lontane?” E lei serafica chiama in causa gli psicologi per
rimpicciolire e relativizzare anche quel suo sforzo di memoria GRANDE nella Torino
piccola (un dubbio irriverente mi prende: per contrappasso c’entrerà anche l’amato
super fusto Eastwood in questo titolo?). Forse le cose non sono sempre andate
proprio così, abbozza incerta…
E allora dovrò rileggere le amate, ma da anni neglette, Natalia Ginzburg
e Lalla Romano (ti pareva che Mariolina non avesse un parente che la conosceva
o che un parente di Mariolina non fosse entrato in un suo libro?), con occhi
nuovi, occhi mariolini, e cercare anche in loro l’arcano della memoria: come si
fa a conservare brandelli di ricordi per ricomprendere il passato in una storia,
mettergli su una carcassa e rivestirlo di senso? Perché questo è necessario,
prima di tutto per salvare noi stessi dal flusso che ci disperde e a cui siamo
maledettamente incatenati. Come dice Dostoevskij, conosciamo solo quel flusso,
ma è una conoscenza effimera, falsata, che non ci basta. Andiamo così alla
ricerca dei due infiniti che ci delimitano, gli inizi e le fini, ne abbiamo
bisogno, ma ci sfuggono.
E allora leggo Mariolina insieme a libri e riflessioni di altre donne,
con una storia diversissima dalla sua, una Storia depredata di famiglie, spesso
ebree, dell’Europa Orientale: Marija Stepanova, Katia Petrowskaja, Svetlana
Boym… Ma il fondo è lo stesso, in fondo. La fantastica (Dostoevskij, ancora
lui) ricerca degli inizi e delle fini. Mariolina, per la verità, per sua conformazione
fisiognomica, è tutta proiettata verso gli inizi (e anche la fine del libro è
un meraviglioso, tenero, metonimico inizio).
Sono tutti libri-ricerca sul passato, sulle storie e sulla Storia,
libri che mettono a fuoco quel passato, libri-spremuta di vissuto (Marija
Stepanova), libri-frigorifero per conservare, ma al tempo stesso per inverare e
rendere reale, quel prodotto a breve scadenza che è la memoria. Le donne della generazione
nata dopo la Seconda Guerra Mondiale, dopo l’Olocausto, raccolgono minuzie e
non fanno grandi ricostruzioni: i loro monumenti sono le “scatole delle foto di
famiglia”, a volte a loro basta l’elenco di oggetti o la minuta descrizione di
una lampada similmedievale nello studio del padre. Non è un caso che quando si
emigrava dall’URSS era vietato portare via gli album di famiglia, perché le fotografie
raffiguranti più di tre persone erano considerate potenzialmente sediziose. Capita
che censori e polizia di frontiera siano più perspicaci dei sociologi.
Era Šklovskij che diceva che l’arte mostra le cose invisibili straniando la
nostra percezione della realtà. L’abitudine (il flusso) divora le cose, i
vestiti, i mobili, la propria moglie e la paura della guerra, diceva. Svetlana
Boym lo riprende, lo adatta a sé e a noi e precisa: quell’isolamento, la
cornice di cui parlava Simmel (e cosa si presta meglio a essere incorniciato
dei ridondanti oggettini di cattivo gusto che piacevano a Mariolina bambina?), non
rappresenta un’anestesia o una fuga, ma piuttosto un ritorno alla realtà in
modo diverso, per sperimentarla nuova. Lo straniamento non è dal mondo, ma per
il mondo.
È questo che
leggo anche in Torino piccola. E mi pare anche di aver scoperto una
delle leggi del libro, una delle forme dello sguardo di Mariolina. La
metonimia.
Tutti le abbiamo detto, ma perché così piccolo, il libro, perché non
hai scritto di più? Ma era logico! La metonimia è piccola, è abbreviazione, ma dedita
al servizio del grande e dell’intero. È il senso di
misura di chi si sa creatura. È la motivazione
profonda del sobrio understatement torinese. Ci dice del piccolo per
parlarci del grande. E' lo sguardo metonimico che ha fatto dire a Pascal che il mondo "est une sphère dont le centre est partout et la circonférence nulle part".
C’era una città affacciata sul luminoso lago Svetlojar, la Storia crudele l’ha
fatta sprofondare nelle acque, ma Kitež non è sparita, continua a vivere sul
fondo del lago e i puri di cuore la riconoscono solo dal tocco delle sue
campane.
Mariolina Bertini, Torino piccola, edizioni Pendragon, Bologna 2018.
Mariolina Bertini, Torino piccola, edizioni Pendragon, Bologna 2018.
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