Nel giorno del settantesimo anniversario della
morte di Vjačeslav Ivanov voglio ricordarlo con questa meditazione sulla morte:
una dolente ma pacificata meditazione sulla morte che inizia immergendosi nelle
tenebre e nel buio dell’angoscia per emergere lieve e silente nella composta
contemplazione del Mistero d’amore del gesto eucaristico di Cristo, svelato
nell’immota essenzialità dei mosaici dei primi cristiani.
La poesia Sobaki [Cani], era stata composta a Pavia il 12 gennaio 1927. Essa
va letta insieme a Palinodija
[Palinodia], scritta solo due giorni dopo. In entrambi casi si tratta di una
riflessione sulla propria percezione della classicità e della cultura ellenica
tanto amata, ora però riconosciuta come impotente di fronte alla “notte
indomabile” della morte e del nulla, e bisognosa di una guida altra. E' una
palinodia, una dolorosa ritrattazione che il poeta compie come atto di ascesi
(“Da te fuggo. In Tebaide di locuste e d'assenzio/ E del miele selvatico mi nutro
del silenzio” – traduzione di D. Gelli Mureddu).
СОБАКИ
Vergil. Aen. vi. 257.
Ни вор во двор не лезет, ни гостя у ворот:
Все спит, один играет огнями небосвод.
А пес рычит и воет, и будит зимний сон;
Тоскливые загадки загадывает он.
Все спит, один играет огнями небосвод.
А пес рычит и воет, и будит зимний сон;
Тоскливые загадки загадывает он.
Быть может, в недрах Ночи он видит прежде нас,
Что, став недвижно, очи в последний узрят час?
Иль слыша вой зазывный родных подземных свор,
С их станом заунывный заводит разговор?
Что, став недвижно, очи в последний узрят час?
Иль слыша вой зазывный родных подземных свор,
С их станом заунывный заводит разговор?
Резва в полях пустынных, где путь лежит теней,
Их бешеная стая: «летать бы, лая, с ней»...
Иль есть меж полчищ Ада и ратей Дня вражда,
И псу, как волчье стадо, его родня чужда?
Их бешеная стая: «летать бы, лая, с ней»...
Иль есть меж полчищ Ада и ратей Дня вражда,
И псу, как волчье стадо, его родня чужда?
И за кого б на травле вступился страж людской?
За странницу ли Душу, зовущую покой?
Иль гнал бы, ловчий сильный, ее чрез топь и гать?
И пастию могильной рвался бы растерзать?...
За странницу ли Душу, зовущую покой?
Иль гнал бы, ловчий сильный, ее чрез топь и гать?
И пастию могильной рвался бы растерзать?...
Блажен, кто с провожатым сойдет в
кромешный мрак:
Махнув жезлом крылатым, вождь укротит собак.
И скоро степью бледной на дальний огонек
Придет он в скит к обедне и станет в уголок.
Махнув жезлом крылатым, вождь укротит собак.
И скоро степью бледной на дальний огонек
Придет он в скит к обедне и станет в уголок.
И взора не подымет на лица вкруг себя:
Узнает сердце милых, и тая, и любя.
А вот и Сам выходит, пресветлый, на амвон
И Хлеб им предлагает, и Чашу держит Он.
Узнает сердце милых, и тая, и любя.
А вот и Сам выходит, пресветлый, на амвон
И Хлеб им предлагает, и Чашу держит Он.
И те за Хлебом Жизни идут чредой одной;
И те, кто Чаши жаждут, другою стороной...
Молчанье света! Сладость! Не Гость ли у ворот?...
Немеет ночь. Играет огнями небосвод.
И те, кто Чаши жаждут, другою стороной...
Молчанье света! Сладость! Не Гость ли у ворот?...
Немеет ночь. Играет огнями небосвод.
CANI
Visaeque canes ululare per
umbram.
Vergil. Aen. vi. 257
Nè ladro nell'androne, né ospite sulla soglia:
Tutto dorme, sol il cielo di luci barbaglia.
Ma un cane ulula e ringhia, e sveglia sonni d'inverno;
Indovinelli d'angoscia lui divina.
Forse, nel cuor della Notte prima di noi lui vede,
Ciò ch'ormai fissi gli occhi scrutano all'ultima ora?
O uditi i latrati richiami delle ctonie mute, sua
stirpe,
Con quel loro branco lugubre dialogo accende?
Ov'è la via delle ombre, nei campi vuoti è veemente
La lor furiosa frotta: “orsù volare, ululando in
coro”...
O ostili son le turbe dell'Ade e del Giorno le schiere,
E aliena, come branco di lupi, per il cane è quella sua
stirpe?
E nella caccia chi difende degli umani la sentinella?
Forse l'Anima raminga anelante la quiete?
O, esperto battitore, l'incalza tra paludi e pantani?
E si slancia a dilaniarla tra le fauci tombali?
Beato chi accompagnato scende nel buio atro:
Con colpo di verga alata, la guida ammansisce i cani.
E ben presto per la pallida steppa al lume lontano
Arriva nell'eremo alla Mensa e in un canto si posa.
E l'occhio non alza intorno a sé sui volti:
Ravvisa il cuore i cari, e ama e si strugge.
Ma ecco che Lui esce, luminoso, sull'ambone
E il Pane offre loro, e il Calice regge Lui.
E per il Pane di Vita quei si mettono in fila;
E per il Calice agognato, gli altri dall'opposto
lato...
Silenzio di luce! Dolcezza! Non è l'Ospite alla soglia?...
Muta è la notte. Il cielo di luci barbaglia.
In Cani è ormai impossibile il perfetto parallelismo che in precedenza
Ivanov tracciava tra cultura classica e messaggio cristiano ed è chiaro che la
Sibilla non è una scorta sufficiente. Il ritmo incalzante dei giambi, che
sostiene e rafforza le scelte lessicali legate all'arte venatoria e bellica,
rende l'angoscia di fronte al nulla dell'anima abbandonata alle forze ctonie
(le immagini della caccia “tra paludi e pantani”). La “furiosa” corsa tra i
“campi vuoti”, le domande incalzanti e i brandelli di dialoghi sono un'eco
puškiniana, perché ci riportano all'atmosfera desolata di Besy [I demoni], dove Puškin indugia sul liminare della vita e
sull'incombere annichilente della morte.
In Ivanov, tuttavia, la poesia
finisce per distendersi con le ultime tre quartine nella contemplazione della
mensa eucaristica imbandita a cui convergono simmetricamente le due file degli
apostoli, come nei mosaici paleocristiani.
In questa poesia Ivanov raggiunge
una felice armonia tra i mezzi espressivi e il contenuto espresso. Prendiamo ad
esempio la cesura: sottolineata dall'ampliamento e dalle rime imperfette, essa è
particolarmente importante, perché porta dentro di sé il carattere di
opposizione richiamato a livello semantico da una serie di contrasti e
paralleli rovesciati e dalle due congiunzioni disgiuntive in posizione forte
nel primo verso.
Il fatto che gli emistichi siano
così ben evidenziati (grazie anche agli ampliamenti di una o due sillabe),
traducendo, mi ha reso possibile lavorare su un verso di due settenari
accoppiati, creando così una sorta di alessandrino martelliano (con alcune
“cadute” più lunghe in alcuni versi dove mi è scappato o un ottonario o un
novenario, così facendo venendo a formare una specie di esametro). Intessuto di
alliterazione, assonanze rime, rime interne, rime interne irregolari, ma anche
rimalmezzo: benché vengano spesso confuse, la rimalmezzo è qualcosa di più
della semplice rima interna; è una rima di tipo metrico, che divide il verso in
due emistichi.
Intanto, oltre ogni opposizione,
il componimento in realtà disegna un cerchio (chiasmatico tra i primi due versi
e gli ultimi due), il cui fulcro è la soglia.
L'angoscia dell'incipit trova
così riposo nella pacificazione finale. Dal buio alla luce, questo è il viaggio
dell'“Anima raminga”, perché, perfino l'opposizione finale (le due file per i
Doni) rappresenta, in realtà una convergenza verso un punto focale: il Cristo
al centro, l'Ospite che appare alla fine, mentre era assente dalla soglia
deserta dell'inizio.
Soprattutto in questo suo ultimo
atteggiamento verso il mondo classico, Ivanov spesso si esprime in questi
parallelismi contrastivi (per esempio, “le turbe dell'Ade e del Giorno le
schiere”, полчищ(e) Ада и ратей
Дня dove il chiasmo rafforza l'opposizione semantica). Attraverso di
essi la poesia ci accompagna dal buio, dalla guida oscura della Sibilla,
insieme dal sinistro ululare dei cani, fino alla luce e al silenzio del Mosaico
paleocristiano.
Nell'ottica cristiana, infatti,
il cammino verso l'al di là non è più turbata e disordinata discesa incalzata
dai cani, bensì pacificata processione nel “silenzio di luce”, mentre la notte
è muta di dolcezza, non più straziata da ululati angosciosi. Così, infatti,
Ivanov scrive della poesia ai figli: “L'Eucarestia nell'ultima strofe è
descritta come gli antichi mosaici raffigurano l'Ultima Cena...
Si può trovare questa traduzione e molto molto altro nel bel libro dedicato a Ivanov delle edizioni Lipa a cura di Marco Sabbatini e Andrej Šiškin e introdotto da Marko Rupnik.
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