Leningrado. Memorie di un
assedio di Lidija
Ginzburg (1902-1990), tradotto e introdotto da Francesca Gori, è il nuovo titolo
della collana “Narrare la memoria” ideata da Memorial Italia. Sotto il suo testo, pubblicato per la prima volta nel
1984, l’autrice ha apposto una triplice data
«1942-1962-1982», a testimonianza non solo delle difficoltà di pubblicazione,
ma anche di tutto l'instancabile lavoro di limatura durato quarant'anni.[...] La
Leningrado dei leggendari novecento giorni dell’assedio, tra il settembre 1941
e il gennaio 1944, è innanzitutto gorod-golod,
città fame. La fame descritta da Ginzburg, con i
suoi riti e la sua routine, tuttavia,
non è solo espressione di un bisogno fisico, è l’essenza intima della realtà
vissuta dalla città col suo tempo che sgocciola via la massa corporea dei suoi
abitanti, in una tragica normalità fatta di norme atte a organizzare deperimento
e morte.
[...] L’uomo
dell’assedio, infatti, è un individuo dall’esistenza nuda, ma ha uno scopo:
sopravvivere, far scorrere il tempo e non morire, perché è un leningradese e
resiste, in questo senso la sua lotta con la fame è percepita anche come un
fatto sociale. L’individuo è una particella del corpo di Leningrado città,
corpo nudo privato della sua carne, avamposto di una resistenza eroica e della
propria morte al tempo stesso. È
un individuo dalla vita pesante e dalla morte leggera, la morte del distrofico:
“Una morte senza stupore: c’era un uomo e ora non c’è più” (p. 176), ben
lontana dal processo tormentato descritto nella Morte di Ivan Il’ič da Tolstoj (l’autore più letto nella
Leningrado assediata, anche per la sua particolare visione dell’eroismo scevra
da ogni retorica). [...] Non è facile orientarsi nel panorama etico della vita quotidiana
nell’assedio. Come scriveva Giorgio Agamben a proposito di Auschwitz, anche qui
non abbiamo alcun “cartografo” di una nuova terra etica, benché il tema sia
diventato materia di molti studi storici. Episodi di ferocia, cannibalismo e
violenze inaudite si alternavano a momenti di condivisione e sacrificio. Pietà
e crudeltà, indistricabilmente intrecciate insieme anche nel titolo di una
delle prose ginzburghiane, sono un motivo costante nella descrizione dei
rapporti umani della gente assediata, intrappolata senza scampo negli
ingranaggi di un mostruoso ed efficace meccanismo di annientamento, tra bombe,
gelo, fame e pericolose delazioni, quando ogni mese del primo terribile inverno
aveva la sua caratteristica specifica: dicembre e le slitte coi cadaveri
avvolti nei lenzuoli; gennaio e i numerosi cadaveri abbandonati per strada;
febbraio e i cadaveri impilati ai bordi delle vie. Come in Primo Levi, il
sentimento che prevale è la vergogna, vergogna perché la nuda sopravvivenza è
già di per sé misura dell’insufficienza del proprio sacrificio. [...]
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